Caro Vint, mi permetto di rivolgermi a te come un vecchio amico perché il tuo ruolo nell’evoluzione di internet ti pone fra i miei idoli. Con tutta l’umiltà che si deve a una figura della tua statura, vorrei però muovere qualche appunto alla tua considerazione sulla privacy, secondo cui essa rappresenta una semplice anomalia determinata da peculiari condizioni storiche verificatesi di recente e comunque prima di internet. A supporto di ciò, sostieni che fino a qualche tempo fa vivevamo in piccole comunità in cui ciascuno era a conoscenza della vita degli altri. Ne consegue, mi pare, che internet ci avrebbe riportati alla norma, dunque alla condivisione della nostra vita con gli altri.
Dietro l’apparente ovvietà della tua considerazione si nasconde però un grosso errore di valutazione. Nelle comunità vigevano e vigono legami di amicizia, parentela allargata. Legami per l’appunto di comunità, un termine che è più o meno l’antitesi di globalità quando si parla di gruppi. Nelle comunità ci si conosce, si condividono problemi e momenti felici, ci si aiuta o ci si detesta ma prevalentemente in conseguenza di esperienza diretta e vissuta. Nulla del concetto tradizionale di comunità ha a che vedere con la sua accezione moderna, è un fatto quantitativo. Nelle comunità in senso tradizionale, sei tu stesso a dirlo, la sfera della condivisione è ampia e complessa: valori, ricordi comuni, relazioni, sentimenti. Nelle comunità moderne, quelle “globali”, miliardi di monadi si toccano per un solo punto, tutto il resto rimanendo fuori, oggetto di altre relazioni altrettanto effimere e superficiali.
Cos’hanno dunque in comune le relazioni virtuali che si stabiliscono via social network con quelle comunitarie in senso stretto? Ben poco direi. D’altronde l’azienda di cui sei “chief evangelist” non sembra avere le idee molto più chiare al riguardo, dopo che ripetutamente ha tentato di trasformare la posta elettronica in un social network, forzando un cortocircuito fra dinamiche sociali che nulla hanno a che vedere fra loro.
Nelle comunità peraltro vige il controllo, esiste una precisa assunzione di responsabilità da parte di ognuno, esiste la sanzione. Nelle comunità digitali la deresponsabilizzazione rispetto alle azioni compiute è quasi totale – complice certo un’incapacità delle funzioni legislative nazionali di interpretare il mezzo digitale. E poi, perdonami di nuovo, tu parli dalla scrivania di una società che rifiuta la responsabilità sui contenuti che veicola riparandosi spesso dietro al totem dell’algoritmo – non a caso al centro di un rovente dibattito sulla ventata di illegalità che forse non gli uomini ma di certo gli algoritmi, finiscono per alimentare.
Passando oltre, come non convenire col fatto che oggi “il nostro comportamento sui social network è piuttosto dannoso per la nostra privacy”! Ma chi se non i social network stessi, hanno incoraggiato, avendone tutto l’interesse, un uso spensierato della condivisione, predicando senza pudore la fine della privacy? E chi altro se non gli attivisti pro-privacy e i governi – che la privacy hanno il ruolo di garantirla ai propri cittadini – hanno ottenuto di porre condizioni al diritto dei social network di usare i dati dei loro utenti?
D’altronde chi se non i social network vedono nell’abolizione della privacy e nell’allargamento della base utente di internet a sacche di persone pronte a condividere allegramente i fatti loro, una gigantesca opportunità di business? Non era l’allora CEO della tua azienda, Eric Schmidt che si spingeva fino a dire “se non hai nulla da nascondere non hai nulla da temere“?
Tutto ciò premesso, su un piano puramente diacronico la privacy è effettivamente un’anomalia. Abbiamo passato molto tempo senza avercela, perlomeno garantita dalla legge, e il tramonto delle comunità rurali ha di certo giocato un ruolo in questo senso. Ma la storia è piena di anomalie: anche la cosiddetta civiltà occidentale è, sul piano diacronico, una breve parentesi rispetto ai lunghi millenni in cui gli uomini risolvevano bisogni primari e problemi sentimentali con la clava.
Quello che mi aspettavo di sentirti aggiungere, ma che forse non puoi dire (altrimenti non saresti chief evangelist di Google), è che se quest’anomalia chiamata privacy deriva da un’evoluzione delle dinamiche sociali, è solo un simmetrico mutamento delle dinamiche sociali a poterne determinare la scomparsa. Non certo la convenienza di questa o quell’azienda. In assenza di questa inversione, la privacy è forse un’anomalia utile, non per nulla esito naturale della nuova configurazione della società.
Permettimi di aggiungere una considerazione solo apparentemente off topic. Negli ultimi anni molti dei servizi tecnologici che all’alba di internet erano a pagamento sono diventati gratuiti. La contropartita è la parziale cessione della propria privacy a favore di aziende che forniscono gratuitamente servizi che hanno un costo. Desidererei fortemente una maggiore e più diffusa consapevolezza riguardo la portata e le conseguenze di questa contropartita, ma passiamo oltre. Il punto è che per molti servizi divenuti il centro della mia vita digitale, non mi è neppure offerta un’alternativa ad-free, in cui è al 100% tutelato il mio diritto alla discrezione – diritto che in alcun modo può essere ritenuto il preludio alla delinquenza. Dunque la mia stessa volontà di stare al passo con la “digitalizzazione del mondo”, sempre più imprescindibile sul fronte lavorativo, implica necessariamente la cessione di importanti quote della mia privacy. Suona un po’ come un ricatto, non credi?