Fra la fine degli anni ’90 e l’inizio dei 2000, si è consumato il primo round di uno scontro che, romanticamente, potremmo definire “fra innovazione e status quo”. Da un altro punto di vista potremmo dichiarare quel periodo l’inizio della fase in cui la tecnologia è divenuta in qualche modo nemica del diritto d’autore, su scala mondiale.
Il periodo è precisamente quello del boom di Napster, un fenomeno che acquisì massa critica ancor prima che coloro i quali interessi ledeva – le major in primis – ne comprendessero potenzialità e rischi.
Non desidero ripercorrere la storia di Napster – per la quale vi indirizzo verso questo contributo – quanto piuttosto stabilire un parallelo fra la situazione di allora e quella di adesso. L’occasione di questa riflessione mi arriva da parecchi “indizi” raccolti nel corso degli ultimi 13 anni, e in particolare di un fatto di cronaca recente che mi appresto a raccontarvi.
Protagonista degli accadimenti più recenti è la Kaleidascape, un’azienda californiana di attiva nel settore dell’home entertainment, che ha sviluppato una serie di prodotti (una sorta di DVD-BD Jukebox) che consentono l’importazione dei propri Blu Ray e DVD per una più agevole fruizione di tutta la propria libreria solo ed esclusivamente all’interno della propria abitazione, anche su più apparecchi TV.
L’azienda, che nei suoi prodotti implementa una serie di misure per prevenire la duplicazione, utilizza in effetti il ripping dei contenuti multimediali ma al solo fine di rendere più fruibile la propria collezione. Eppure, come racconta Ars Technica, l’azienda è stata colpita da una sentenza nella quale, a causa di una violazione dei termini di utilizzo del DVD coniugata alle disposizioni del DMCA, le si impone di cessare la commercializzazione dei prodotti DVD Jukebox.
È particolarmente stridente il confronto fra questa sentenza e la libertà che offre per esempio iTunes, di rippare la propria libreria di CD e fruirla sfruttando la flessibilità del formato digitale. Una libertà del tutto proporzionale allo stato dell’arte nel mondo tecnologico, nel quale sempre più i supporti ottici rappresentano – almeno per la massa degli utenti – un’inutile complicazione rispetto alla fruizione di contenuti che più e meglio possono essere conservati e riprodotti in forma digitale. Una libertà d’altronde proporzionale anche a quella serie di tasse e balzelli che vengono imposti un po’ in tutto il mondo sulla vendita di supporti magnetici e ottici registrabili.
La questione odierna, e tutte quelle che seguiranno dopo questo precedente, rappresenta dunque un importante cambio di passo nella suddetta lotta: è giunto il momento in cui i detentori di diritti d’autore possono agire direttamente sull’innovazione, all’occorrenza bloccandola, per difendere la propria posizione. Piuttosto che adeguarsi a mutate condizioni tecnologiche, o più realisticamente trovare un terreno comune di accordo con i soggetti protagonisti dell’evoluzione dei media, bloccano l’innovazione alla sorgente tramite termini d’uso assurdi moltiplicati per i vincoli stabiliti dal DMCA.
Lungi da me negare il fatto che i soggetti tecnologici abbiano lucrato sulle spalle dell’industria dei contenuti – ne ho parlato estesamente, per esempio qui. Il punto è che questo nuovo capitolo della lotta ha il sapore della controriforma, una controriforma che di nuovo lede l’utente finale. Perché se l’epoca del tutto gratis non è stata altro che la monetizzazione selvaggia di milioni di utenti che pensavano di aver scoperto il paese della cuccagna, questa nuova fase rende addirittura superati i già insensati DRM: d’ora in poi se l’innovazione non sta bene alle major, semplicemente non si fa.