Le tre “A” del DTP: Adobe, Apple ed Aldus
I Font vettoriali sono oggi parte integrante del nostro lavoro quotidiano e stentiamo ad immaginare di poterne fare a meno.
Tecnicamente un font vettoriale può essere definito come:
“l’unione tra un insieme gerarchico di tabelle e di rappresentazioni di glifi. I caratteri possono essere ricavati su una base strutturata per carattere e corpo [point size, termine tipografico], che produce un’eccellente qualità su varie risoluzioni di schermo.”
Vettoriale vs. Bitmap (zoom)
Sia le piattaforme Mac che quelle Windows utilizzano i font TrueType, anche se gli standard a cui aderiscono possono essere diversi condizionandone l’utilizzo cross-platform. In sostanza la tecnologia TrueType si compone di due elementi chiave:
- Il Rasterizer (che effettua il render)
- I font veri e propri
Il “Rasterizer” utilizza le informazioni proprie del font (dimensione, colore, orientamento, ecc.) per creare la corrispettiva immagine bitmap da visualizzare sul display. Si tratta, in buona sostanza, di un interprete che combina i dati specifici dei font con la sua descrizione matematica, ottenendo un formato che può essere gestito dal sottosistema video del calcolatore.
Nel caso di font di alta qualità sono presenti anche gli hinting codes, necessari per garantire che il font ridimensionato (in piccolo) mantenga un corretto posizionamento nella griglia di appartenenza e sia quanto più leggibile e privo di sfocature.
Font con Hinting (righe 2 e 4) e senza Hinting (righe 1 e 3)
Ma dove e quanto nascono i font True Type? Per rispondere a questa domanda dobbiamo posizionarci, temporalmente, in un momento ben preciso: la Seybold Desktop Publishing Conference (San Francisco) di settembre del 1988, durate la quale i vari attori protagonisti della “rivoluzione” informatica si rendono conto che è ormai necessario offrire un sistema di font (scrittura) scalabile per andare incontro alle crescenti esigenze degli utenti. In particolare è necessario garantire la qualità di stampa per le nuove periferiche da 300dpi e risolver la gestione cross-platform dei font stessi.
Il problema è particolarmente sentito nel settore editoriale poiché costituisce un grande limite nella resa finale delle elaborazioni digitali e rendere difficile lo cambio di file tra utenti che utilizzare piattaforme eterogenee. La questione, inoltre, condiziona anche i software che permettono di operare in WYSIWYG ma che non riescono a visualizzare correttamente i font.
Ad onor del vero al problema esiste già una soluzione decisamente valida: si tratta di PostScript di Adobe, alla base del formato dei font Type 1. PostScript è in sintesi il linguaggio che descrive il font, pensato in modo specifico per incrementare notevolmente la qualità di stampa dei documenti. Il linguaggio di Adobe permette di gestire un notevole numero di informazioni in modo che i font possano adattarsi ai diversi tipi di dispositivi. Ogni glifo (elemento di disegno minimale) viene descritto tramite le curve di Bezièr, quindi attraverso la matematica vettoriale, permettendo di manipolarne facilmente le dimensioni.
PostScript vs Bitmap
A questo punto facciamo un altro passo indietro e cerchiamo di capire dove nasce PostScript, fondamentale per la nascita di TrueType perché preso a modello (clonato). Siamo nel 1978 allo Xerox PARC (e dove se no?) e John Warnock diventa ricercatore dell’istituto dopo aver sviluppato Design System, antenato di PostScript, per la Evans & Sutherland Computer Corp.
Xerox intuisce l’importanza del lavoro di Warnock in relazione al suo core business (le periferiche di stampa) e affianca al neo-ricercatore Martin Newell per implementarne una versione specifica per i propri sistemi: nasce così JaM (dalle iniziali dei due sviluppatori).
Ma Warnock è convinto che il proprio linguaggio possa andare al di la dell’applicazione interna a Xerox e con il supporto di Charles Geschke, allora suo superiore diretto, cerca di convincere la società a trasformare JaM in un prodotto commerciale. Secondo voi cosa risposero i lungimiranti vertici di Xerox? Picche, ovviamente, e come poteva essere altrimenti visto il disastro combinato con ALTO e STAR?
Così Warnock e Geschke, il 2 dicembre 1982, fondano Adobe, il cui nome deriva da quello del fiume Adobe Creek che scorreva dietro la casa di Warnock a Los Altos, in California. Il logo della società viene realizzato dalla moglie di John, Marva Warnock, designer di professione:
Marva, Charles e John durante la realizzazione del logo di Adobe
Il risultato del lavoro di Marva
Charles e John impiegano poco meno di due anni (1984) per lo sviluppo della terza versione di Design System che viene rinominato in PostScript. Il linguaggio è decisamente potente ma particolarmente avaro di risorse, tanto che le prime stampanti a supportarlo hanno un processore più potente di quello di cui sono dotati i calcolatori a cui vengono collegate. Nonostante ciò i vantaggi sono evidenti:
- Indipendenza dalla periferica di stampante: basta che la stessa adotti PostScript per elaborare correttamente le informazioni inviate dal programma;
- Indipendenza dal vendor: chiunque, acquistando la relativa licenza, poteva dotare la propria stampante dell’interprete PostScript;
- Sintassi ben documentata, in modo da favorire lo sviluppo di software PostScript – compliant.
Le potenzialità ci sono tutte, manca a questo punto solo uno “sponsor” importante. E qui entra in gioco Steve Jobs che è in affannosa ricerca di un linguaggio per la nuova stampante professionale di Apple che affiancherà il Macintosh per trasformarlo in un sistema DTP (Desktop Publishing). Nel 1985 Apple investe 2.5 milioni di dollari in Adobe, pari al 15% del pacchetto azionario, e la LaserWriter viene dotata di uno specifico controller PostScript.
Steve Jobs, Charles Geschke e John Warnock nel 1985
La stampante (prodotta in realtà da Canon) riesce così ad avere una marcia in più rispetto alla diretta concorrente Laserjet di HP, e il prezzo di 7.000 dollari è tutto sommato più che giustificabile visti anche i costi decisamente più alti delle alternative professionali disponibili.
A questo punto abbiamo sia la tecnologia di stampa che il personal computer di riferimento, ma il software? Ebbene, Apple ed Adobe si rendono conto che la soluzione esiste già e risponde al nome di PageMaker, un programma di impaginazione per Mac realizzato dalla “piccola” Aldus di Paul Brainerd. Qui si apre una piccola parentesi italiana: in nome Aldus deriva da quello del tipografo ed editore italiano del ‘400 Aldo Manuzio.
Aldus PageMaker
Dalla loro unione nasce ufficialmente il Desktop Publishing (termine coniato da Brainerd), che catapulterà le tre aziende in una realtà assolutamente nuova, trasformandole in colossi dell’informatica.
Nel 1994 Adobe decide di acquisire Aldus, diventando la software house numero uno al mondo nel settore della grafica per DTP e, con l’acquisizione nel 2005 di Macromedia, anche per il Web. E’ doveroso sottolineare che Adobe non ha mai avuto alcuna intenzione di continuare lo sviluppo di PageMaker, avendo nel frattempo creato una propria soluzione, InDesing, che di fatto ora è l’unico sistema DTP integrato nella Creative Suite.
Siamo così giunti alla conclusione di questo primo articolo (primo di 3) dedicato ai font. L’appuntamento è per la prossima settimana.