In questi giorni i riflettori sono puntati su Apple, primariamente a causa di un pezzo del New York Times in cui si sottolinea quanto in fin dei conti strida la situazione del lavoro nel settore industriale americano, con l’enorme ricchezza che produce Apple, e l’enorme forza lavoro che impiega al di là dell’Oceano Pacifico.
Questo discorso ne porta dietro uno molto più grave – sottolineato in quest’altro contributo del NYT – relativo alle condizioni di lavoro dei lavoratori cinesi impegnati nella produzione dei costosi gadget che dall’altra parte del mondo si vendono a milioni.
Apple, l’azienda tecnologica oggi più florida – che contende ad Exxon il ruolo di public company di maggior capitalizzazione assoluta, non è l’unica a trarre profitto da un assetto produttivo in ottima parte delocalizzato in Cina: a questo link potete trovare un elenco dei maggiori clienti di Foxconn, fra cui troviamo HP, Acer, Nintendo e Microsoft.
Secondo gli esperti interpellati nel primo contributo citato, la scelta di delocalizzare l’assemblaggio in Cina non è dettata da sola convenienza economica: un impianto come Foxconn, che impiega qualcosa come un milione di dipendenti, ha una possibilità praticamente illimitata di scalare la capacità produttiva per incontrare le esigenze di un produttore, così come di ridurla quando la domanda venga a calare. In un mercato tecnologico estremamente competitivo, la capacità di far viaggiare domanda e produzione in parallelo rappresenta un vantaggio enorme per evitare per esempio le passività derivanti dalla gestione di un magazzino pieno di invenduto quando la domanda si riveli più bassa del previsto.
C’è di più: un aneddoto racconta di come Jobs, a pochi giorni dal lancio del primo iPhone, abbia chiesto di sostituire il materiale utilizzato per lo schermo con uno più resistente. Una modifica del genere avrebbe richiesto negli USA costi e tempi incompatibili con la data di lancio già stabilita, mentre in Cina è bastato svegliare qualche migliaia di lavoratori nel sonno e accompagnarli in linea di montaggio, dove li attendevano una tazza di tè e un biscotto.
Un’altra criticità citata riguarda l’indisponibilità di personale qualificato in numero sufficiente da soddisfare i colossali volumi richiesti da un produttore come Apple e in generale l’incapacità del sistema del lavoro di adattarsi, dal punto di vista delle competenze e delle condizioni di lavoro, alle mutevoli esigenze dell’industria tecnologica.
Questi ragionamenti, che non hanno in sé nulla di irrazionale, iniziano a preoccupare nel momento in cui si pensa che le forzature applicate sulla forza lavoro Cinese come su quella occidentale – di fatto tagliata fuori dal mercato – hanno come primo motore un consumismo talvolta sfrenato, che le aziende hanno tutto l’interesse a coltivare.
È interessante a questo proposito citare il modello brasiliano il quale, complice un enorme mercato interno e una forte tassazione delle merci tecnologiche importate, ha indotto la stessa Foxconn a realizzare un impianto produttivo in loco, con migliaia di posti di lavoro e una qualifica degli stessi. Si tratta di un’operazione vincente sotto molti aspetti: Foxconn guadagna l’accesso ai mercati del Mercosur e condizioni fiscali vantaggiose sulla produzione mentre il Brasile capitalizza decine di migliaia di posti di lavoro e il know how di un leader mondiale dell’industria tecnologica.
Da un altro punto di vista l’operazione somiglia a un’esportazione del modello cinese per la forza lavoro, e del modello americano per il consumo: due sistemi ormai saldamente interrelati – col corollario che la Cina possiede anche una bella fetta del debito pubblico USA, ma questa è un’altra storia. Si tratta di un modello di dubbia sostenibilità economica, sociale ed ambientale, che tuttavia non mostra segni di recesso, così come non ne mostra la fame – totalmente trasversale in termini di nazioni e strati sociali – di consumi.
Si tratta di una tendenza che solo stati ed enti sovranazionali possono sovvertire, al prezzo di sovvertire pesantemente il proprio calendario di priorità. In che modo? Caricando per esempio le aziende dei costi derivanti da condizioni di lavoro accettabili, indipendentemente da dove decidano di delocalizzare. Questo sposterebbe la partita della delocalizzazione sul know-how della forza lavoro e gli incentivi statali, creando forse un circolo virtuoso. Del quale, ovviamente, farebbe parte anche un consequenziale incremento di prezzo dei nostri gadget preferiti e un rallentamento complessivo dei cicli di consumo. Poca cosa rispetto alla quota di senso di colpa “embeddata” in ogni prodotto tecnologico.