Care lettrici e cari lettori, pubblichiamo oggi il secondo capitolo di un libro che ci sta molto a cuore. Il titolo in questione è LE ONORATE SOCIETÀ di Rosario Careri, edito da gruppo Albatros il filo, che racconta “L’Odissea dei lavoratori di Agile / Ex Eutelia”. Una storia che sintetizza la parabola – sarebbe il caso di definirla picchiata – dell’industria tecnologica italiana e che, a dispetto dei miseri e volgari esiti delle ultime settimane, ha origine proprio in quel piccolo miracolo industriale che fu la Olivetti nel secolo scorso. Seguirà fra qualche giorno un’intervista all’autore, a cui saremo felici di rivolgere anche domande emerse nei commenti. Buona lettura.
Capitolo 2: L’ERA OLIVETTI (LA PRIMA CARROZZA)
Tutto ha inizio quando l’ing. Carlo De Benedetti, agli inizi degli anni Novanta, in quanto attratto dal business delle telecomunicazioni, decide di mollare l’informatica, ossia la Olivetti.
La grande “Ing. C. Olivetti & C., S.p.A.”, azienda, italiana al 100%, orgoglio dell’informatica nazionale.
Ricordo che, giovane ingegnere elettronico, brillantemente laureato alla Università di Napoli, dopo aver maturato una buona esperienza presso aziende del calibro di Sperry Univac, Honeywell e General Electric, nel 1986 mi si presentò l’opportunità, poco più che trentenne, di essere assunto dalla Olivetti, con un incarico di prestigio, per un giovane dell’epoca.
Direttore di una delle sue filiali commerciali.
Un sogno che si realizzava, senza che dovessi ringraziare nessuno, a parte il Signore Dio e i miei genitori, i quali, con i loro grandi sacrifici, mi consentirono di poter esprimere le mie potenzialità!
Ero diventato un manager, potevo gestire un’impresa, tale era, a quei tempi, una filiale.
Un’impresa nell’impresa, con il suo conto economico, con il suo organico, con una propria autonomia gestionale.
L’azienda riconosceva i meriti e le capacità, mie e dei miei colleghi, e tutti ci sentivamo gratificati, protetti, orgogliosi di esserne parte integrante.
Essa ci faceva sentire il suo calore, la sua presenza, le sue carezze.
L’organizzazione era perfetta!
La risorsa umana, cioè io, i miei colleghi, decine di migliaia, nel mondo, era considerata il patrimonio aziendale più importante, che andava curato, coltivato, costantemente aggiornato.
Fonte di idee, elemento creativo, su cui l’azienda puntava per i suoi successi e al quale non poteva rinunciare.
Pensa, un patrimonio irrinunciabile!
E la risorsa umana, secondo i principi Olivettiani, doveva vivere degnamente, perché solo così poteva lavorare bene ed esprimere il meglio di se stessa.
Per noi tutti il lavoro era una gioia, ci sentivamo, come si era soliti dire, realizzati, sia come uomini e donne, sia come professionisti.
L’ottimismo era diffuso, si poteva immaginare il futuro, costruire sogni, convinti di potercela fare e di poter reggere, serenamente, alle avversità della vita.
Si pensava positivo.
Per la grande Olivetti ci saremmo fatti ammazzare!
La grande Olivetti, già!
La “Grande Utopia”, la fabbrica a misura d’uomo che è stata un elemento importante della recente storia italiana, che mi è tuttora dentro e che, se da un lato mi inorgoglisce, per la fortuna di averne fatto parte, di poter dire “io c’ero”, dall’altro mi rende profondamente triste, nel dover constatare che tutto è andato distrutto.
Costituita ad Ivrea, nel 1908, come “prima fabbrica nazionale di macchine per scrivere”, grazie al cuore e alla genialità del fondatore, Camillo Olivetti, e del figlio Adriano, si distinse per l’attenzione alla tecnologia, alla ricerca e all’innovazione, alla cura del design, ma, soprattutto, per l’immensa sensibilità per gli aspetti sociali del lavoro.
Camillo Olivetti, nel passare le consegne e la gestione dell’azienda al figlio, gli lasciò una sola raccomandazione “Adriano fai quel che vuoi ma non licenziare nessuno… la disoccupazione involontaria è la peggior disgrazia che possa capitare ad un essere umano”.
E Adriano fece sua, totalmente, l’invocazione del grande Padre.
Che uomini, che spessore.
Olivetti fu la società di informatica che, nel 1957, realizzò il primo mainframe, il primo grande elaboratore elettronico commerciale, totalmente a transistor e di altissime prestazioni, del mondo: l’ELEA, il cui acronimo stava per ELaboratore Elettronico Aritmetico (successivamente, modificato in Automatico, per ragioni di marketing) ed era stato scelto, con riferimento alla omonima colonia della Magna Grecia, sede della Scuola Filosofica Eleatica, la quale sosteneva che, solo tramite il pensiero, è possibile superare le “false apparenze dei sensi”.
Pensa al livello di avanguardia tecnologica dei laboratori di questa grande e gloriosa azienda.
Nella piccola Italia (una volta il Bel Paese!), c’era un’azienda che, non solo, era in grado di rivaleggiare con colossi mondiali, come IBM e Univac, ma, addirittura di superarli, sia nell’ingegno, sia nella tecnologia.
Questo modo, tutto italiano, di “fare impresa” trasformò, ben presto, l’azienda familiare in un modernissimo gruppo industriale che, negli anni Ottanta, in piena “gestione De Benedetti”, le consentì di essere presente nei Paesi esteri più importanti (USA, Francia, Gran Bretagna, Argentina, Messico, etc.), di realizzare joint venture e partnership con i più prestigiosi produttori di hardware e di software del mondo (Honeywell, General Electric, Digital Equipment Corporation, AT&T, Intel, Microsoft, Cisco Systems, Oracle, etc.), disponendo di Centri di ricerca e sviluppo all’avanguardia, popolati da cervelloni, veri e propri scienziati dell’informatica, vanto dell’ingegno italiano e autori di centinaia di brevetti di interesse mondiale.
Sempre in quegli anni, realizzò il mitico M24, il primo vero personal computer italiano, prodotto presso i gloriosi stabilimenti di Scarmagno, compatibile con il sistema operativo MS-DOS e, quindi, aperto a tutti i software disponibili sul mercato.
Un vero gioiello!
Un prodotto così perfetto e all’avanguardia che, praticamente, si vendeva da solo.
Infatti, grazie ad esso, nel 1985, Olivetti si guadagnò il titolo di secondo produttore di PC, a livello mondiale.
Nel luglio 1988, attraverso un Contratto di Programma con il Ministero per gli Interventi Straordinari nel Mezzogiorno, venne costituita la Olivetti Ricerca, Società Consortile per Azioni, nata per favorire lo sviluppo delle attività di ricerca e di formazione nelle aree del Mezzogiorno.
Pozzuoli divenne il polo principale della rete di laboratori, a cui si aggiunse anche il Centro di ricerca di Bitritto (Bari).
In sintesi, centinaia di miliardi di finanziamenti pubblici e circa novecento nuove assunzioni di giovani talenti soprattutto del sud.
Fu un evento epocale, soprattutto a Napoli, che vide un bagliore di luce sfavillante.
Grazie ad Olivetti, questa martoriata città stava per diventare il cuore della ricerca informatica dell’Italia, al pari dei più celebrati Poli di ricerca statunitensi, quali quelli di IBM, Intel, HP, Digital Equipment Corporation, Microsoft, etc.
Tra quelli italiani, il marchio Olivetti era il più conosciuto nel mondo.
L’azienda si distinse particolarmente dal resto del panorama industriale italiano, perché non perseguì solo il profitto, ma riuscì a mantenere alta l’attenzione per il progresso sociale e culturale dei suoi dipendenti.
Il caso di Ivrea fu emblematico, in quanto Olivetti ne condizionò lo sviluppo socio economico, rendendola protagonista di un’interessante esperienza di governo locale, incentrata su ideali di federalismo e socialismo umanitario.
I servizi sociali erano perfetti e garantiti dalla sinergia tra l’amministrazione locale e l’azienda.
Basti pensare che il comprensorio industriale disponeva di una fitta rete di ambulatori medici, per tutte le patologie, di asili nido, di una mensa, di una biblioteca, di impianti sportivi e altro ancora.
Il tutto era a disposizione, gratuitamente, per i dipendenti e per i loro familiari.
Altro esempio, lo stabilimento di Pozzuoli, realizzato, nel 1954, dall’architetto napoletano Luigi Cosenza, il quale, per volontà di Adriano Olivetti, creò anche un quartiere abitativo residenziale per i dipendenti.
“I luoghi del lavoro devono integrarsi, per qualità e per vicinanza territoriale, con i luoghi dell’abitare.”
Posto in uno scenario da sogno, i Campi Flegrei, lo stabilimento fu ideato, fin dalle origini, per creare condizioni ideali per il lavoro in fabbrica, senza lesinare gli spazi per i servizi sociali (mensa, biblioteca, assistenza sanitaria, ecc.) e per la vivibilità dei lavoratori (ambienti di lavoro a misura d’uomo ed estese aree di verde, aiuole fiorite, laghetto, viali alberati, etc.).
Anche se solo chi l’ha vissuto può capire cosa sia stato il fenomeno Olivetti, mi auguro di essere riuscito, anche in minima parte, a descriverti e a farti comprendere l’importanza di essere parte di quella realtà.
Mi sentivo a bordo di una corazzata invincibile, indistruttibile!
Orgoglio dell’Italia (una volta il Bel Paese!), avrebbe meritato la massima protezione e tutela, soprattutto, per le generazioni future.
E, invece, niente di tutto questo!
Nessuno si è mai degnato di porre un’attenzione, anche minima, per difendere un patrimonio, un tesoro della società italiana, cosiddetta, civile.
Del resto, non sto scoprendo nulla di nuovo, in quanto scempi come questo sono all’ordine del giorno, in questo nostro sconclusionato Paese (una volta il Bel Paese!).
Comunque, continuando nel discorso iniziale, nei primi anni Novanta il settore informatico mondiale entra in una fase turbolenta, causata dalla standardizzazione dei componenti e dalla globalizzazione dei mercati, e ciò rende critica la difesa della competitività dei prodotti hardware.
Olivetti reagisce, spostando il baricentro dell’offerta verso le soluzioni applicative, il software e i servizi e investe, decisamente, nel business delle telecomunicazioni.
Nel 1994, la neonata Omnitel vince la gara per l’assegnazione della licenza di secondo gestore nella telefonia mobile GSM.
Nel 1995 inizia la sua attività commerciale e, contemporaneamente, nasce Infostrada, per operare anche nei servizi di telefonia su rete fissa.
L’anno successivo, l’ing. De Benedetti lascia tutti i suoi incarichi in Olivetti.
Seguendo, semplicemente, il suo istinto finanziario, molto fine, secondo una logica legata al profitto assoluto, per niente sensibile al futuro di chi gli ha fatto guadagnare onore, soldi e popolarità, decide di mollare la gloriosa e storica società.
Nel 1997, vengono ceduti, a nuovi proprietari, gli storici stabilimenti di produzione hardware di Scarmagno.
Un altro “pezzo di storia” che se ne va.
Questi, qualche anno dopo, subiranno l’onta del fallimento, con gravissime conseguenze per l’indotto, per tutti gli uomini e le donne che vi lavoravano e per la Comunità eporediese (i cittadini di Ivrea).
Ma questa è un’altra storia, anche se, per molti aspetti, simile alla nostra, come potrai verificare più avanti.
Ragionando cinicamente, ossia, con la mentalità di chi punta, solo ed esclusivamente, al “profitto”, ossia a far soldi, il ragionamento non fa una grinza, anzi è perfetto.
Grande figata!
Chissà quanto champagne avrà versato chi ha tratto vantaggio e quattrini da questa operazione di “alta finanza”.
Ma sarà stato consapevole che dentro le coppe vi era anche sangue innocente?
Sicuramente, sia Camillo, sia Adriano Olivetti, dall’alto della loro umanità e della loro sensibilità imprenditoriale, si saranno rivoltati nella tomba e, probabilmente, ogni tanto, avranno dei sussulti, nell’assistere agli scempi compiuti dai loro, a mio parere, indegni successori.
Dimmi cosa si ritrova, oggi, il nostro Paese?
Ed io, allora come ora (la storia si ripete!), continuo a chiedermi come, i governanti dell’epoca, la politica, abbiano potuto consentire, rendendosi, consapevolmente o inconsapevolmente, complici, il compimento di un simile delitto?
Come si sia potuta permettere la distruzione dell’informatica italiana?
Sì, perché l’agonia dell’informatica nazionale e, quindi, del dramma dei “duemila”, di oggi, inizia allora.
Tra l’altro, come hanno potuto permetterlo ad imprenditori, che hanno goduto di privilegi inimmaginabili, in termini di centinaia di miliardi di lire di finanziamenti pubblici, ossia soldi del Popolo Italiano, e hanno portato alla distruzione un’azienda storica, un pezzo di cuore italico?
Un azienda, all’epoca, in salute.
Bada bene!
Per amor del cielo, immagino, anzi sono certo, che, dal punto di vista legale, tutto quanto avvenuto, sia stato condotto con la massima regolarità, ma ciò che discuto è la leggerezza con cui ciò sia stato permesso e l’indifferenza per le conseguenze che ne sarebbero derivate.
Se solo si fosse adottata una sana gestione imprenditoriale, con il sostegno oculato della politica, l’informatica nazionale avrebbe potuto essere salvata e, probabilmente, oggi, i “duemila” non avrebbero vissuto il loro dramma, non ci sarebbero stati tanti caduti, lungo la strada, la gloriosa azienda avrebbe potuto continuare ad essere gloriosa e, sono certo, dare anche un utile contributo contro la disoccupazione giovanile.
Soprattutto quella del Sud!
E invece no!
E la Olivetti è pronta per la cottura!
Pensa, decenni di lavoro, di progetti, di brevetti, di ricerca, di opere sociali e culturali, spesi per costruire un settore di eccellenza e di prestigio, nazionale e internazionale, cancellati in un solo istante, con una disinvoltura, a dir poco, disarmante.
Un pezzo importante di storia italiana che se ne va in fumo!
Viene, infatti, venduta, nel 1997, alla società americana Wang Global, specializzata in servizi sulle infrastrutture informatiche e, di li a poco, quest’ultima viene venduta alla multinazionale olandese Getronics, la quale, con l’acquisizione anche di Olivetti Ricerca, raccoglie, in Italia e nel mondo, l’eredità informatica del gruppo Olivetti, che smette, definitivamente, di parlare italiano.