1999: il broadband era ancora un miraggio per la gran parte del pianeta, i masterizzatori CD erano da poco giunti a prezzi popolari e già da qualche anno esisteva l’encoder mp3, che consentiva la compressione delle tracce CD in file da pochi mega, idonei alla trasmissione tramite modem 56k, ma soprattutto con una qualità assolutamente adeguata per l’ascolto su impianti domestici.
A quel tempo – sembra ieri eppure sono passati quasi 10 anni! – i CD audio superavano spesso le 40.000 lire, un singolo arrivava 15.000 lire e le case discografiche nuotavano nell’oro. Lo scambio di file musicali aveva proporzioni minime ed avveniva primariamente attraverso canali come IRC o via server FTP pubblici e privati, con possibilità di ricerca molto limitate. Fu così che a Shawn Fanning, un diciottenne americano col pallino della rete, venne in mente di creare una piattaforma di scambio.
Nacque così Napster, un software che dal lato client permetteva agli utenti di condividere la propria musica e cercare quella condivisa da altri utenti. La peculiarità rivoluzionaria del modello era proprio il ruolo del server, che non ospitava “fisicamente” i file ma si limitava alla semplice indicizzazione del materiale condiviso dagli utenti connessi, rendendo possibile l’utilissima funzione di ricerca.
La limitazione del ruolo del server a semplice “catalizzatore” di scambio pose problemi legali notevoli, che generarono un dibattito memorabile e non ancora esaurito. Come puntare il dito su un servizio che non forniva altro che la ricerca sulle liste dei files provenienti da milioni di utenti? Perché non prendersela allora anche con mIRC che, in modo più rudimentale, agevolava lo scambio di opere protette?
Altro problemino: Napster era completamente gratuito per gli utenti – il modello di business di Napster, per quanto in ultima analisi fallimentare, è tuttora un parziale mistero – e non generava lucro dallo scambio di files.
Malgrado tutto ciò le major trovarono il modo di far valere le proprie istanze: non è una novità che il diritto segua come un’ombra gli interessi economici più pressanti.
Quello generato da Napster era infatti un problema di scala: grazie alla funzionalità di indicizzazione e ricerca, la piattaforma creata dal giovane Fanning arrivò, nel momento di massimo splendore, ad ospitare la bellezza di circa 60 milioni di utenti. Gente che si scambiava quantità di file abnormi, impossibili da veicolare nello stesso modo sulla rete IRC. Per contro a nessuno era mai venuto in mente di denunciare un quindicenne che copiava un CD su cassetta per la fidanzata.
Alla base di questo successo non c’era ovviamente il solo istinto al furto dei file sharers: la politica di prezzo applicata dalle major era estremamente conservativa, per non dire di peggio. Come sostenevo già qualche anno fa, il punto di prezzo, stranamente identico per tutte le maggiori etichette, era fondato sul monopolio della distribuzione, ovverosia sull’impossibilità degli utenti di approvvigionarsi di musica in modo alternativo.
Non dimentichiamo che erano quelli gli anni del CD, e che la copia su cassetta implicava comunque una perdita di qualità notevole. In conseguenza di tutto ciò, nell’utenza si era creata una forte spinta centrifuga, che Napster raccolse in modo massiccio, colpendo alla base il modello di business delle corporation della musica.
C’è di più: in un’intervista del 2002, lo stesso Fanning rivelò che Napster era stato lautamente finanziato da molti musicisti – tra cui Neil Young e Lou Reed – che si sentivano vessati dalle condizioni sempre più restrittive imposte loro dalle case discografiche.
La chiusura di Napster, avvenuta nel 2001, rappresentò un sollievo effimero per le ricche corporation discografiche: una pletora di piattaforme alternative, alcune basate sugli stessi protocolli di Napster, erano pronte ad attirare l’utenza orfana del capostipite del P2P, con funzionalità aggiuntive, un modello sempre più decentralizzato e la possibilità di scambiare tutti i tipi di file – Napster funzionava solo per gli mp3.
Sul versante della connettività, il broadband, senz’altro enormemente incoraggiato dallo stesso P2P, andava prendendo rapidamente piede, rendendo possibili scambi di interi album e video, quando, ai tempi di Napster, un solo mp3 poteva provocare copiose raffiche di imprecazioni.
Dall’altro lato della barricata, quegli anni hanno rappresentato per le major musicali – quelle cinematografiche ne hanno seguito fedelmente le orme – un periodo fondamentale: il momento in cui si è preferita la strada della battaglia legale a quella della comprensione del fenomeno, il momento in cui si sono poste le basi per la consegna del mercato musicale online ad operatori che prima e meglio hanno saputo concepire un modello di business per la distribuzione sulla rete.
Napster rimarrà nella storia per essere stato il primo a raccogliere i frutti del mix fra codifica mp3 e la diffusione della rete e poi del broadband. Un mix che la grettezza delle major ha saputo rendere dirompente, al punto che a tutt’oggi il P2P non cessa di crescere.