Molto prima di Internet, si definiva gatekeeping la funzione svolta da chi, trovandosi nella posizione di editore o giornalista, filtrava le notizie decidendo a quali dare rilievo e quali ignorare. La figura del gatekeeper era radicata in un contesto mediatico caratterizzato da pochi media di massa, che comunicavano a molti individui simultaneamente (broadcast), individui dotati di un potere di interazione coi media limitato (cd. push, le notizie sono ricevute passivamente, non ottenute in seguito a ricerca).
Inutile dire che il concetto stesso di gatekeeping è stato spesso associato a quello di eterodirezione: ovunque e da sempre il potere tutela la sua esistenza controllando le porte d’accesso alla conoscenza.
Una delle illusioni che ha accompagnato il boom di Internet era per l’appunto la liberazione da questo schema: tutte le fonti sono contemporaneamente accessibili, nessuno può più stabilire per noi cosa c’è da sapere e cosa sì può tranquillamente ignorare.
Avanti veloce fino ad oggi: Internet è diventato un fatto di massa e un motore di ricerca – Google – ne è divenuto la porta d’accesso per eccellenza. L’algoritmo alla base delle fortune di Google ha addirittura imparato a sintetizzare nella stessa pagina dei risultati della ricerca informazioni coerenti con quelle ricercate – prezzi, recensioni di prodotti, notizie.
C’è di più: in una intervista del 2010 Eric Schmidt dichiara: “sarà sempre più difficile per la gente consumare contenuti che non siano stati creati su misura per loro”. Se da un lato questo mutamento nell’approccio verso la conoscenza rischia di rinchiuderci definitivamente nel recinto della nostra ignoranza – come dicevamo già qualche anno fa – dall’altro è ovvio domandarsi: chi sintetizzerà quei contenuti se non Google? Chi dispone di risorse migliori di quelle del colosso di Mountain View per filtrare fra petabyte e petabyte di contenuti la risposta ad ogni domanda?
È proprio in questo passaggio che l’inserimento di una qualsivoglia chiave di ricerca, si trasforma in un gesto non meno banale della selezione di un canale in TV o all’acquisto di una specifica testata in edicola. Ed è proprio in questo passaggio che diventa chiara l’inadeguatezza delle dicotomie push-pull e broadcast-narrowcast, a definire il grado di libertà di un sistema mediatico.
Al contrario di quanto speravamo, malgrado il passaggio dal push al pull, dal broadcast al narrowcast, esistono oggi analogie preoccupanti con la situazione pre-Internet. Con la differenza che, se prima temevamo che un potere occulto cercasse di comandare da remoto il nostro senso critico, oggi rischiamo di trovarci – con l’aiuto di un algoritmo che riduce il tema della rilevanza a una questione matematico-linguistica – fossilizzati nei nostri pregiudizi, incapaci di cambiare idea. E senza un nemico da combattere, un opulento tycoon a cui addossare la colpa della nostra disinformazione.
Qualche link sul tema:
– al TED si parla della Filter Bubble: il modo in cui i filtri della ricerca ci mettono al riparo da informazioni che potrebbero contraddire le nostre convinzioni;
– solo qualche ora fa Eric Schmidt deponeva, non senza qualche difficoltà, di fronte al Senate Judiciary Committee su questioni legate al quasi-monopolio di Google.
– ulteriori informazioni sulle pratiche illecite imputate a Google da alcune aziende competitor su ArsTechnica