I bravi artisti copiano, i grandi artisti rubano – Pablo Picasso
Un musicista decide un bel giorno di reinterpretare con le sonorità dei sistemi 8 bit degli anni ’80 Kind of blue (1959) di Miles Davis, uno dei più famosi album della storia del jazz. L’album si chiama Kind of bloop e la copertina, coerentemente con l’ispirazione, non è nient’altro che la versione pixelata di quella originale.
Il fotografo autore dello scatto poi divenuto la copertina dell’album di Davis a fine anni ’50 ritiene che il suo diritto d’autore sia stato violato e dà mandato ai suoi legali di ottenere un cospicuo risarcimento per danni da Andy Baio, l’autore dell’album.
Baio, convinto che il suo uso dell’opera sia tutelato dalla dottrina del fair use, porta in tribunale le sue istanze. Ben presto però la potenza di fuoco dei legali del famoso fotografo newyorchese scoraggiano Baio dal proseguire l’azione legale. La questione viene dunque composta extragiudizialmente con un pagamento di Baio a favore del fotografo di 32.500 dollari.
Potete leggere la storia, raccontata dal protagonista, qui.
Sarebbe facile, forse un po’ troppo, commentare la questione nei termini del ricco fotografo con tanto di casa da 72 stanze (sic!) a Manhattan che strappa quello che per lui è un piatto di lenticchie a un artista indipendente. Qualcuno avrà anche la tentazione di dire che ciò che rende quella foto interessante è perlopiù il soggetto, e potrebbe finire per domandarsi il senso di esigere danaro su uno scatto che non è citato in quanto tale, ma in quanto copertina di un album – una colonna portante della storia del jazz – peraltro risalente ad oltre mezzo secolo fa. Altri infine potrebbero obiettare che la rielaborazione di quella foto non era fine a se stessa ma anzi creativa e perfettamente in tema con quella che, piaccia o meno, è una nuova espressione artistica. Non è però questo il punto.
Allargando la prospettiva, il fuoco si sposta sula dottrina del fair use che, come Baio giustamente rimarca, è tanto generica da rappresentare sempre una coperta troppo corta. E, come tutto ciò che è troppo generico, rischia di finire interpretata sempre a favore di chi ha al soldo i migliori avvocati.
Situazioni del genere, anche se composte extragiudizialmente, danno un’idea delle potenziali ripercussioni della guerra del copyright. Una lunga guerra di trincea, che da una parte vede schierate persone che riconoscono nella citazione e nella reinterpretazione dell’opera altrui il germe della creatività, l’origine di ogni positiva sovversione dello status quo. Dall’altra gente che è diventata lo status quo, dopo aver fatto il proprio comodo in un tempo in cui la proprietà intellettuale era molto meno disciplinata.
A chi fosse interessato ad avere un altro punto di vista sulla vicenda, segnalo questo interessante contributo di John McCoy, che apre con una storiella degna di essere riportata:
Ōoka Tadasuke, un magistrato giapponese del 18° secolo, viene interpellato da un locandiere il quale ascolta un giovane confidare a un amico che mangia il suo riso vicino alla locanda perché l’odore del pesce cotto rende più gradevole il suo pasto. Il locandiere denuncia il giovane al magistrato, pretendendo un pagamento per l’odore che egli ruba. Ōoka, esaminato il caso, chiede al giovane di prendere qualche monetina dalla tasca e farla cadere da una mano all’altra. Dice quindi al locandiere: l’odore di pesce è stato pagato dal suono dei soldi.