Avrete forse notato che nelle ultime settimane non è apparso nessun post per la rubrica “Gatto di Shroedinger”. La ragione della mia assenza è stata che sono ritornata momentaneamente ad Amsterdam per la discussione del mio dottorato, che ora è ufficialmente concluso e disponibile per il download in pdf a questo indirizzo. Mi sembra quindi giusto raccontarvi un po’ quello che ho fatto in questi ultimi quattro anni.
Storicamente l’uomo è sempre stato portato a ricercare spiegazioni sulla propria esistenza e sul mondo che ci circonda osservando il cielo. Ne abbiamo prova fin dagli antichi egizi, e anche in epoche precedenti l’osservazione degli astri ha sempre rappresentato una delle principali attavità di “ricerca” dell’uomo. Fino alla scoperta del telescopio, da parte di Galileo, le osservazioni erano però molto limitate, basandosi solo sull’occhio umano. Anche con l’avvento del telescopio, però, le cose sono cambiate relativamente poco. Fino all’inizio del XIXesimo secolo, infatti, le osservazioni erano limitate allo spettro visibile, ovvero solo la luce visibile dai nostri occhi. Fraunhofer ha cominciato una nuova rivoluzione, osservando che il Sole emette luce non soltanto nella banda visibile, ma in molte altre frequenze, più alte e più basse, non osservabili dall’occhio umano ma misurabili tramite appositi strumenti. Di nuovo, però, le osservazioni erano limitate alla radiazione elettromagnetica. Esattamente come la luce non appare solo nel visibile, così le emissioni delle stelle e di eventi astrali non sono limitate alla radiazione elettromagnetica. Nel 1912 sono stati misurati per la prima volta i così detti “raggi cosmici”, ovvero particelle cariche (a terra fondamentalmente muoni) che vengono prodotte in vari processi galattici ed extragalattici e che arrivano fino a noi.
A basse e medie energie i raggi cosmici sono stati studiati in molti modi: tramite rivelatori posti su palloni aerostatici, o su satelliti orbitanti attorno alla Terra. Ad altissime energie, però, i raggi cosmici sono estremamente rari. A 10^19 eV avremo solo una particella per chilometro quadrato all’anno, e a 10^20 eV solo una particella per chilometro quadrato per secolo! È quindi molto difficile studiarle e comprenderne la composizione primaria (ovvero prima di interagire con le molecole atmosferiche terrestri) e l’origine. Un’altra difficoltà per la rivelazione dei raggi cosmici è che, appunto, sono particelle cariche. Questo vuol dire che nel loro lungo tragitto verso la Terra subiranno l’influenza di numerosi campi magnetici, generati da stelle e galassie, e quindi la loro traiettoria potrebbe venir curvata. Questo fa si che sia molto difficile puntare all’indietro e capire il punto di origine di queste particelle. Una possibile soluzione è osservare i neutrini, particelle molto particolari di cui abbiamo già avuto modo di parlare in passato. I neutrini sono particelle estremamente leggere (tanto che fino a poco tempo fa si pensava fossero completamente prive di massa) e prive di carica elettrica. Sono soggette solo alla così detta “interazione debole”, ovvero la più debole di tutte le interazioni esistenti in natura. Per questo, è molto improbabile per un neutrino di venir fermato nel suo percorso verso la Terra, può attraversare intere galassie e raggiungerci senza aver mai modificato la sua traiettoria, visto che non interagisce coi i campi elettromagnetici.
Il problema, in questo caso, è proprio la scarsa voglia di interagire dei neutrini. Infatti, se attraversano anni luce di Universo, pensate quant’è la probabilità che interagiscano proprio nel pallino che è la nostra Terra. Eppure, ogni tanto, questo accade, e noi fisici siamo là pronti come falchi ad analizzare queste interazioni. In passato abbiamo già avuto modo di parlare di Antares e Km3NeT, uno l’evoluzione dell’altro. L’idea è che quando un neutrino interagisce con un nucleo terrestre, può generare un leptone carico. Ovvero, può generare una particella a scelta tra elettrone, muone e leptone tau, a seconda del “sapore” del neutrino incidente. Questa particella carica viaggia nella Terra, in particolare nel Mar Mediterraneo, dove il nostro detector è situato. Quando una particella carica estremamente energetica viaggia in un mezzo, può emettere luce tramite un effetto chiamato Cherenkov. Tramite una lunga serie di fotomoltiplicatori, situati sul fondo del mare, è possibile rivelare questa luce, e ricostruire la traiettoria della particella carica, e quindi del neutrino iniziale. Per capire il principio di rivelazione dei neutrini, credo sia chiarissimo guardare questo video fatto da un mio collega (e in suo onore, vi chiedo di mettere il volume degli altoparlanti al massimo):
Come vedete dal video, nella stragrande maggioranza dei casi si crea una particella che lascia una “traccia” all’interno del rivelatore: questa particella è il muone. Ci sono però altri due tipi di neutrini, i neutrini elettronici e tau. In questo caso la particella che esce dall’interazione è un elettrone o un tau. A causa delle diverse masse di queste particelle, esse interagiscono in modo diverso con il mezzo (l’acqua marina) e quindi lasciano un segnale differente nel detector. Al minuto 1:25 del video vedete l’esempio di un neutrino elettronico.
Questo tipo di segnale è proprio quello che ho studiato durante la mia tesi. Nella prima parte del lavoro, ho sviluppato un algoritmo per il riconoscimento e la ricostruzione di questo segnale, che appare come della luce emezza uniformemente nel tempo a partire da un singolo punto nello spazio. Il problema sorge dal fatto che un simile segnale non è generato unicamente da neutrino cosmici. Ci sono molte altre sorgenti di luce, anche a quelle profondità marine. Per esempio i raggi cosmici, di cui abbiamo appena parlato, possono raggiungere anche queste profondità, e generare luce a loro volta. Inoltre, lavorando nel fondo del mare c’è anche il problema della così detta “bioluminescenza”: delle creature marine, tipo plankton, che emettono luce per comunicare e per altri motivi legati alla loro sopravvivenza. Queste bestioline rappresentano il principale rumore di fondo per esperimenti come Antares, e vanno quindi presi in considerazione.
Vi sono vari modi per ridurre questo rumore di fondo. Selezionando, per esempio, solo segnali che colpiscono almeno un certo numero di fotomoltiplicatori, o che hanno una forma compatibile con l’emissione di luce da parte di una particella carica.
In aggiunta a questi metodi, nella mia tesi ho considerato solo neutrini provenienti da una sorgente molto particolare: i gamma-ray bursts. I GRB, già nominati in questa rubrica, sono enormi esplosioni che avvengono nell’Universo, al collassare di una stella supermassiva, o durante la fusione di due buchi neri o di una stella a neutroni con un buco nero. In questi anni vi sono molti esperimenti atti a studiare i GRB: satelliti con rivelatori di raggi gamma che registrano in tempo reale l’esplosione di un GRB. Sarebbe molto interessante riuscire ad osservare un neutrino in coincidenza, temporale e spaziale, con un gamma-ray burst. Oltre all’interesse astrofisico, limitare l’osservazione a pochi secondi attorno al momento della registrazione del GRB, aiuta notevolmente a ridurre il background dell’analisi.
L’ultimo anno di lavoro è stato quindi dedicato allo sviluppo di un’analisi per l’osservazione dei neutrini in coincidenza coi GRB. Per i GRB osservati (avvenuti durante l’anno 2008) nessun neutrino è stato rivelato. Non potendo quindi dichiarare nessuna scoperta (ahimé) l’analisi si è concentrata nel porre un limite al possibile flusso di neutrini emessi da ciascuno di questi GRB, basandosi su modelli teorici disponibili in letteratura. In pratica, questo vuol dire che la conclusione è: io non ho visto niente, facendo questo tipo di analisi, per cui quasto GRB non può aver emesso più di tot neutrini, altrimenti io li avrei visti.
Non è il massimo delle conclusioni, ma benvenuti nel mondo della fisica! :-)