Nel mondo dell’editoria finanziata dalla pubblicità, le chance di successo o semplicemente di sopravvivenza di una testata giornalistica sono da sempre legate al mercato dell’advertising, vale a dire esattamente proporzionali a numero di “eyeballs” per annuncio pubblicitario.
Da cui la naturale tendenza dei media – tutti i media – a cortocircuitare il meccanismo: se il guadagno è proporzionato al traffico, e il traffico segue dei trend, rincorrere quei trend significa guadagnare di più. Su Internet, dove tutto è misurabile, questo cortocircuito si è amplificato fino al paradosso: testate online spuntano come funghi, con l’esplicito intento di monitorare i trend più redditizi in modo da massimizzare le revenue di ogni singolo contributo (è un metodo codificato da AOL,, qui un’ottima analisi di Tagliaerbe).
Non c’è bisogno di tirare in ballo i mostri sacri del giornalismo per constatare che non necessariamente ciò che suscita l’interesse do più persone è proporzionalmente rilevante. Illuminante a tal proposito un articolo della rivista The Atlantic di Boston, intitolato per l’appunto ‘What’s Trending’ Isn’t Always What Matters: in cui si portano a confronto due trasmissioni che tentano di tradurre il flusso dei social network in un formato TV, The Stream di Al Jazeera e What’s Trending della CBS:
[…] insistono differenze significative fra le due trasmissioni. Mentre The Stream ha deliberatamente scelto di evitare le ultime manie virali […] What’s trending, come ammette la stessa home page dedicata allo show, abbraccia l’effimero e il sensazionale come parte della sua missione di dare copertura ai più recenti trend dello spazio sociale, enfatizzando ciò che è virale più di quel che è vitale.
Beninteso, evidenziare la non equivalenza fra rilevante e trending non significa chiamare il giornalismo alla missione di liberare il mondo dalla futilità. La materia qui in discussione, molto più sottile di quel che appaia, è in effetti il bilanciamento fra il volume di futilità e quello di contenuti “pesanti” all’aumentare della pervasività dei mass media e al mutare dei paradigmi che li regolano (vedasi cd. web 2.0).
Guardando agli andamenti economici delle vecchie e nuove realtà editoriali (quelle nate con Internet nel DNA) emerge una considerazione allarmante: quella che agli albori della rete appariva come la definitiva liberazione dalla morsa dell’establishment massmediatico – la possibilità di approvvigionarsi da un numero illimitato di fonti disinnescando l’autorità dei media locali, la capacità di far sentire la propria voce al pari dei professionisti della notizia – è nel volgere di un decennio divenuta origine di una ancor più marcata sproporzione fra futilità e approfondimento, a favore ovviamente della futilità.
Torna dunque la ormai consueta – almeno per chi segue la rubrica semisegreta il tarlo – domanda: un panorama mediatico i cui ritmi sono sempre più scanditi dalla tecnologia, che conseguenze induce sulla società civile? Da un punto di vista un po’ meno imparziale, non staremo consegnando le chiavi della conoscenza in mano a un’élite tecnocratica che nel pubblico vede niente più che il carburante per il proprio business e misura il suo successo sulla sola partita doppia?