Qualche settimana fa avevamo cominciato, tra le pagine di questa rubrica, un discorso sulle origini del “metodo scientifico”.
Gli eventi ci hanno poi incalzato, e abbiamo cambiato argomento. Tra i commenti di uno degli scorsi post, però, riguardante la presunta scoperta del bosone di Higgs, volenti o nolenti si è ricominciato a trattare l’argomento del metodo scientifico, e quindi ho pensato di rispolverarlo, anche alla luce di alcune letture in cui mi sono addentrata ultimamente.
Una in particolare, è interessante, soprattutto per il titolo: un’intervista (nella collana “I Dialoghi – Scienza”) al grandissimo fisico italiano Giorgio Parisi, intitolata “La chiave, la luce e l’ubriaco”. Il titolo fa riferimento a una storiella in cui un ubriaco, una notte dopo molti bicchieri, perde la chiave di casa, e si mette a cercarla curvo sul suolo. Un passante si ferma e si offre di aiutarlo. Dopo qualche minuto di vana ricerca, il passante chiede “Ma è proprio sicuro di averla persa qui, sotto il lampione, la sua chiave?” e l’ubriaco “no, non sono sicuro, ma è qui che c’è la luce!”.
Secondo Parisi la vita del fisico è un po’ questa: spesso le ricerche vengono fatte dove si sa di avere una certa probabilità di trovare qualcosa, dove c’è un po’ di luce che ci permette di vedere.
È un punto di vista molto interessante, perché è un po’ diverso dall’approccio che si ha di solito, in cui ci si pongono domande assolute, per poi andarne a cercare una risposta. Probabilmente, però, il famoso teorico Richard Feynman avrebbe apprezzato questa analogia di Parisi, infatti anche Feynman non era interessato a trovare risposte a grandi domande filosofiche, ma era estremamente dedicato alla scoperta e alla comprensione del mondo. Se poi la comprensione di un fenomeno, o la limpida formulazione di una teoria, porta anche a delle risposte, ben venga, ma il nostro compito, secondo Feynman, è “solo” quello di impegnare il nostro tempo alla comprensione di ciò che ci circonda, senza farci troppi problemi (… o inserite qui l’espressione che volete) sui massimi sistemi dell’Universo.
Da questo punto di vista, mi trovo molto d’accordo con questa analisi della vita del fisico o, più in generale, di ogni scienziato. Ci siamo dedicati a comprendere la struttura della materia, o il funzionamento del nostro corpo, o il susseguirsi delle stagioni, o a decifrare i mattoni elementari che costituiscono il nostro mondo. In ogni caso, non abbiamo, né credo avremo mai, la sicurezza che il nostro lavoro possa fornire delle risposte. Quando si vogliono risposte facili e sicure, è meglio far riferimento ad altro, piuttosto che alla scienza. Un medico non può fornire una prognosi certa, al 100%, sull’evoluzione di un tumore, per esempio, o di una malattia di cui non si conosce l’evoluzione se non per osservazioni statistiche. Ci sarà una certa probabilità di guarire, ma chi dona risposte sicure è in genere un approfittatore. Analogamente, non credo che nessun fisico si toglierà la vita se il fantomatico bosone di Higgs non verrà mai scoperto. La fisica procede per passi, generalmente alternati tra teoria e esperimenti, e se l’acceleratore LHC proverà che il bosone di Higgs non esiste, vuol dire che c’è qualche cosa di diverso da scoprire, una teoria differente da sviluppare.
L’importante è mantenere sempre il contatto con il metodo scientifico, che per gli esperimenti significa assicurarsi che il risultato non sia parziale, ma sia stato ottenuto con un metodo riproducibile anche da altri e che non dipenda da ipotesi azzardate fatte durante l’esecuzione. Per la teoria, applicare il metodo scientifico vuol dire seguire le osservazioni, applicare un metodo universale nella descrizione matematica di un meccanismo fisico e, in ultima istanza, riuscire a predire un fenomeno naturale.
Qualsiasi teoria è infatti soggetta a questa ultima verifica, che non dipende dai peer reviewer, non dipende dal rigore dei calcoli matematici, né dalla bellezza astratta della teoria stessa, ma è da ricercarsi nella Natura stessa. Se una teoria non è in grado di predire nessuna osservazione, è una teoria fallimentare o, per lo meno, inutile.
La fisica, infatti, come la matematica, la chimica e le altre scienze fondamentali, sono soltanto un linguaggio che noi uomini abbiamo inventato di sana pianta per descrivere ciò che vediamo. Risulta molto interessante osservare come solo l’approccio scientifico sia in grado di descrivere in maniera completa la natura. Non ci sono parole, in italiano, inglese o cinese che possano descrivere nei minimi dettagli che cosa succede a ciascun elemento di una stella nel momento di una Supernova. Così come nessuna lingua può descrivere lo scontro tra due nuclei, o il meccanismo di trasmissione di un chip semiconduttore. Certo, possiamo descriverlo approssimativamente, ma per capire veramente che cosa succede bisogna cambiare lingua, prendere il dizionario (che in questo caso può essere un libro di Analisi o di Teoria dei Gruppi) e capire che cosa ci sta dicendo la Natura.
Questo non vuole assolutamente dire che la matematica e la fisica siano i soli linguaggi in grado di descrivere con precisione l’Universo. In un pianeta simile al nostro, nell’altro lato della Galassia, forse degli omini verdi hanno trovato un sistema completamente diverso per farlo, e magari hanno anche maggior successo. Al momento, però, questo è il miglior metodo che l’essere umano abbia trovato.
Per questo, quando una persona vuole sviluppare una nuova teoria fisica, o immettere nel mercato un nuovo medicinale, o sviluppare una nuova fonte di energia per l’umanità, deve seguire certi criteri che sono stati posti dopo secoli e secoli di scoperte, di esperienza, e di fallimenti. Bisogna assoggettarsi al metodo scientifico, talvolta noioso, talvolta lento, ma sempre efficace nel determinare la validità di un lavoro scientifico. I free-lance, nella scienza, non esistono. O meglio, se esistono, alla fine devono comunque passare il proprio lavoro sotto l’occhio critico della comunità.
Seguendo l’approccio scientifico si è in grado di sviluppare una teoria , o di suffragarla tramite un’osservazione, che ci porta in un certo senso ad una “verità”. Ma questa verità, non è un assoluto, è relativa al contesto in cui si è sviluppata la teoria. Per esempio, la meccanica Newtoniana, è una verità, perché nessuno può negarne il successo nello spiegare i moti planetari, o nel determinare i movimenti delle bocce in una partita di biliardo. Rimane una verità, però, solo nel contesto classico, ovvero nell’osservazione di fenomeni macroscopici. Volendo descrivere il comportamento di un elettrone attorno al nucleo, la meccanica Newtoniana fallisce miseramente, e necessita di essere sostituita dalla meccanica quantistica. Vuol forse dire che la meccanica classica è sbagliata?
No! È perfetta, ma solo nel contesto della sua definizione. Così, oggi ci ritroviamo alla ricerca del bosone di Higgs per suffragare il Modello Standard, che in un certo senso, è un’estensione della meccanica quantistica. Nel cercare questa conferma, in realtà sappiamo già che sarà una conferma soltanto parziale, in quanto il Modello Standard non è in grado, così com’è, di includere la Gravitazione. In ogni caso, quindi, ci sarà ancora del lavoro da fare per comprendere l’Universo, che ancora non vuole svelarsi nella sua interezza. Ma questo lavoro non va assolutamente fatto gettando alle ortiche le teorie precenti, ma, al contrario, stando ben saldi sulle spalle dei giganti.