A dieci anni circa di distanza dal lancio di iTunes e del primo iPod, pochi dubitano del fatto che la un tempo florida industria musicale abbia perso il treno del mercato digitale, entrando a causa di ciò in una crisi irreversibile.
La reazione delle major alle evoluzioni degli scenari distributivi, da subito improntata ad una aperta ostilità, ha di fatto ottenuto l’unico effetto di trasferire ad intermediari come Apple il grosso dei guadagni legati alla filiera un tempo da loro presidiata.
C’era dunque da sperare che i gruppi editoriali riuscissero a interpretare in modo a loro favorevole la transizione che da Google in poi sta coinvolgendo il loro settore.
C’era da sperarlo perché, come abbiamo più volte scritto nella rubrica semisegreta intitolata “il tarlo“, l’azzeramento delle economie del giornalismo professionale implica la consegna dell’informazione nelle mani di dilettanti, aggregatori, copia-incollatori e rimasticatori di notizie altrui – dunque la trasformazione del newsmaking in un macroscopico gioco del telefono senza fili.
Al contrario, un anno dopo il lancio dell’iPad, su cui molto puntavano i publisher, l’aggregazione di contenuti altrui è quanto mai fiorente – i 50 milioni recentemente arrivati nelle tasche degli sviluppatori di Flipboard lo dimostrano – mentre il modello di rivista-app, a partire da The Daily di Murdoch, non decolla e anzi sembra già superato.
Fra astrusi paywall (vedi il caso NYT), guerre di trincea sull’accesso ai dati personali degli utenti, i publisher sembrano dunque ancora lontani dal trovare la quadra del nuovo modello di distribuzione digitale. Un modello che, dopo 17 anni di Internet, rimane totalmente improntato all’accesso simultaneo a molte fonti – anche molto eterogenee in quanto a qualità e prossimità ai fatti raccontati. Il che va chiaramente a scapito del rapporto diretto testata-lettore, da sempre cruciale nelle economie dell’editoria.
Torniamo a Flipboard, un’applicazione il cui enorme potenziale è evidente a chiunque l’abbia mai provata: si tratta di un aggregatore di feed scelti dall’utente, integrato con un layer di presentazione che trae il massimo vantaggio dall’interfaccia touchscreen dell’iPad.
All’alimentazione del layer di presentazione provvede un altro componente fondamentale dell’applicazione: un sofisticato meccanismo di lettura ed estrazione di contenuti audio/video/fotografici/social dal contesto originale.
Estratti, privati di fastidiosa pubblicità e incapsulati in un formato tablet friendly, i contenuti vengono quindi serviti all’utente in modo del tutto decontestualizzato e sbrandizzato.
L’immensa popolarità dell’applicazione – che presto verrà clonata da Google e da n altri big dell’industria – ha l’effetto collaterale di azzerare su larga scala, tanto in termini di fidelizzazione quanto di guadagno, le economie di chi col proprio lavoro quotidiano crea contenuti. Quel che è peggio, anche su quell’iPad cui si attribuivano qualità taumaturgiche per le sorti dell’editoria.
Il che non sarebbe un problema insormontabile se i publisher, armati di buona volontà e ben consigliati, facessero blocco unico per creare un modello alternativo capace di coniugare le peculiarità dell’accesso all’informazione ai tempi di Internet, con la non più derogabile necessità di un ritorno economico.
Al contrario ciascuno va per la sua strada, stringe partnership irrilevanti, sforna applicazioni insensate, abbraccia o addirittura propone dispositivi destinati ad un rapidissimo oblio. Le logiche particolari continuano a prevalere sui bisogni generali e la capacità di fare sistema continua a latitare.
Una giostra questa che durerà almeno fino a quando un giorno nemmeno troppo lontano Flipboard, come già fece Google, andrà a bussare alla porta dei publisher proponendogli un accordo di revenue sharing sui loro stessi contenuti. A quel punto anche il treno dei tablet potrà considerarsi perso, con buona pace delle magnifiche sorti e progressive dell’editoria ai tempi dell’iPad.