Qualche giorno fa ho proposto una sintesi del botta e risposta fra il giovane Michael Moore-Jones e Paul Carr circa la rilevanza e la longevità delle informazioni ai tempi del web e più precisamente del cd. web 2.0.
Dopo aver letto molti ed interessanti commenti al pezzo precedente, oggi vorrei sviluppare qualche mia riflessione. Premetto che il problema è tutt’altro che nuovo, ed è stato affrontato su queste stesse pagine, in una prospettiva più ampia, in un pezzo di circa tre anni fa intitolato “Internet ci rende più ignoranti e ottusi?“.
Moore-Jones suggerisce che il problema dell’irrilevanza sia strettamente legato all’incapacità della tecnologia moderna di conservare le informazioni. A me invece pare che la tecnologia moderna abbia ampliato le possibilità di archiviazione dell’informazione oltre le capacità di contestualizzazione e forse anche consultazione futura.
Il risultato è che un adolescente di oggi può potenzialmente disporre di un quantitativo di informazioni – foto digitali, email, log di messaggistica istantanea ed SMS – circa la sua esistenza paragonabile a quello accumulato dai suoi genitori in un’intera vita.
Questa massa di informazioni, caotica, disordinata e certo esposta al pericolo di svanire a causa di un impianto elettrico difettoso, pone sì un problema di persistenza nel tempo, che non è tuttavia l’aspetto più rilevante della questione.
Moore-Jones ricorda che il problema è porre in contesto queste informazioni, renderle intellegibili collocandole in una struttura logica e cronologica, il che è corretto ma parziale: mentre fa riferimento alla comunicazione scritta come veicolo per mantenere nel tempo una memoria rilevante e contestualizzata, non considera che, nello stesso periodo in cui la penna faceva le veci della tastiera, la parte predominante della comunicazione avveniva per via orale: il medium più volatile per definizione.
Non ricorda di converso che, in un mondo in cui le relazioni si fanno sempre più mediate e “virtuali”, molta della comunicazione che in passato aveva luogo per vie orali, avviene invece per iscritto. Il che la rende quella comunicazione più facilmente archiviabile ma – qui sta il punto – non necessariamente più rilevante e degna di essere conservata.
Se d’altronde potessimo disporre delle registrazioni di tutte le conversazioni sostenute dai nostri genitori nel corso della loro esistenza, la sovrabbondanza di queste informazioni creerebbe un problema del tutto analogo a quello posto dal giovane australiano.
Ciò che invece resta di scritto, fra miliardi di parole volate via, risulta facilmente contestualizzabile ex-post proprio perché rappresenta solo una piccola frazione di quell’enorme flusso informativo – la cui larga parte era ed è irrilevante – che la tecnologia odierna ci dà l’illusione di poter contenere.
Il problema dunque è insito in questa “mentalità autoarcheologica” (di cui parlammo già qui), rispetto alla quale la tecnologia fornisce una soluzione solo apparente. Di fatto l’aggregazione ed indicizzazione di tutta la conoscenza mai comunicata non farà che aggravare il problema della rilevanza e della selezione.
Dunque la tecnologia, mentre ci “libera” di una funzione essenziale – la selezione – per accordare la nostra capacità cognitiva con il mondo circostante, ci espone a un rischio che Italo Calvino così descrive:
Maledizione dello stitico (e dell’avaro) che temendo di perdere qualcosa di sé non riesce a separarsi da nulla, accumula deiezioni e finisce per identificare se stesso con la propria deiezione e perdervisi
PS Tanto per mantenere fede all’ispirazione della rubrica semisegreta il tarlo: quando questa o quella azienda tenta di trasformarci in tanti cyber-Funes, dotati di una memoria digitale piena di dettagli irrilevanti, la domanda corretta da porsi è “quali sono gli obiettivi di profitto che quella stessa azienda può ricavare da una simile operazione?”, tenendo presente che l’ultima frontiera del marketing è la completa profilazione dell’utenza.
Se poi questa utenza, intontita dall’assopimento della memoria cerebrale e dal galleggiamento in questo mare di futilità, perderà quella facoltà di discernimento fra il rilevante e l’irrilevante che è pilastro del raziocinio, la “redemption” della pubblicità non potrà che risentirne positivamente.
Caduta che sarà quella mediazione razionale che spesso interrompe la catena che va dall’annuncio all’acquisto, solo la postura rimarrà a separarci dal proverbiale cane di Pavlov.