Torna su questi beneamati lidi la rubrica di retrogaming più amata dagli italiani e sdraiabilmente dalle italiane.
Dopo un periodo sabbatico durato un paio di mesi, la Valigia del Videogamer riempie nuovamente il vostro giovedì con un pieno di ricordi e passioni mai sopite.
Per il momento, ma solo per il momento (causa mancanza cronica di sufficiente tempo spendibile in favore della causa) accantoniamo il viaggio-reportage intrapreso nella terra nipponica, con la promessa di concluderlo quanto prima.
Quindi di cosa parleremo quest’oggi?
Parleremo di…(rullo tambureggiante) retrogaming! Immagino gli applausi scroscianti da casa. Molto bene.
Nonostante siamo riusciti in due anni abbondanti a passare, credo, piuttosto indenni tra le varie generazioni di console e titoli annessi, c’è ancora molto di cui discutere insieme.
Sulla mia lavagna virtuale giace una disordinata ma coerente lista di Post-It e “To-Do”che contengono nomi, date ed argomenti da proporre.
Eppure, come spesso accade, sono i particolari a cogliere la nostra attenzione. Magari non riusciamo a rendercene conto immediatamente e per elaborarli rubiamo spazio ad altre attività seguenti, ma succede. E quando capita è una folgorazione come l’Eureka di Archimede.
Dopo uno dei più classici aperitivi milanesi, mi ritrovai a passeggiare in una zona che non conoscevo di Milano (ed anche se la conoscessi, con il mio scarso senso d’orientamento, dubito riuscirei a fornirvi indicazioni più precise) ed il mio occhio fu per un attimo rapito da un’insegna.
Avete presente quelle scritte con un font chiaramente fuori dal tempo, tipici dei negozi di paese o di una città che però non è più quella in cui vivevate vent’anni fa?
Vi siete concentrati? Focalizzato l’obiettivo? Ecco, esattamente così. Colore puffo un po’ sbiadito, lettere un sghembe per dare l’idea di un luogo sbarazzino.
Purtroppo l’ora mi ha privato della possibilità di farvi visita anche se conto di tornarci sempre che riesca a ricordare come io ci sia arrivato. Ed è tutto fuorché scontato.
L’introduzione mi fornisce il pretesto per parlare di come sia cambiato il mercato.
E le citazioni cinematografiche iniziali sono puramente volute.
Prendendo spunto dalla pellicola dei Coen, mi sono chiesto “negozietto di videogiochi (sottocasa) dove sei finito”?
Non c’è più. E quand’anche ci fosse, trattasi di chiara specie in via di estinzione da preservare. Un dodo dell’elettronica di consumo.
I tempi sono cambiati, ma non lo dico con un eccessivo carico di giudizi di valore (questo sta a voi decidere eventualmente se attribuirgliene), piuttosto con una constatazione fatalista.
Il rivenditore bonario e genuinamente geek che assomigliava a Jeff Albertson de “I Simpsons” (alias The Comic Book Guy) è stato sostituito da una masnada di ragazzini fin troppo svegli omologati in quelle magliette/camicie tutte uguali di stampo anglosassone aziendalista.
Una volta il videogioco era un prodotto di massa ma con una vocazione ancora piuttosto elitaria e corrispondeva ad una fascia di utenti tutto sommato abbastanza definita.
Ora è trasversalmente popolare nei nostri salotti. Popola costantemente i quotidiani e riviste anche se in rubriche ad hoc. E’ diventato non più oggetto di culto ma sfizio onnipresente nella spesa di beni non di prima necessità.
L’industry si è evoluta parallelamente al settore IT con una velocità che ha dell’incredibile.
Ogni tanto, immagino capiterà anche a voi, mi fermo a pensare come vivessimo qualche anno fa.
La Rete ancora in uno stato embrionale, computer dotati di funzionalità calcoli n volte inferiori, social network inesistenti, eppure…eppure si viveva benissimo ed i videogiochi con quegli sprite un po’ fantasiosi, cartoonescamente imbarazzanti a volte, regalavano emozioni indiscrivibili.
In una città di media grandezza, magari capoluogo come poteva essere Udine, il “negozietto” diventava luogo di totale immersione ed il proprietario l’equivalente di un confessore pronto a svelare dal nulla una qualche perla di saggezza.
D’altra parte i mass media interessati all’argomento erano una frazione infinitesimale rispetto al panorama attuale.
Niente aggiornamenti in tempo reale, niente Feed RSS, niente Youtube ed eventi quali l’E3 seguiti in diretta. Occorreva aspettare l’uscita mensile dei vari Console Mania, Game Power, ZZap! Per aggiornarsi sulle ultime meraviglie tecnologiche.
La seconda possibilità era carpire qualche informazione proprio dai rivenditori che avevano un legame diretto ed esclusivo con i publisher e distributori nazionali.
L’import parallelo era pratica quasi sconosciuta e decisamente “roba da ricchi”. Neo Geo a parte, ricordo i costi delle primizie quali il Panasonic 3DO o l’Atari Jaguar: un milione e 300 mila lire.
Mica bruscolini.
Eppure il tutto sembra perso nelle sabbie del tempo ma senza il principe Dustan a poterlo riavvolgere. Non c’è battaglia con le multinazionali che possono avvalersi di altro potere contrattuale rispetto alle piccole realtà locali. I vari GameStop, EB Games, GameRush hanno preso il largo seguendo il modello americano. Dura lex sed lex.
Il margine di guadagno si assottiglia nel momento in cui i costi di produzione lievitano enormemente (ricordiamolo per l’ennesima volta: un videogioco ormai richiede budget pari a quelli impiegati nei film) e vanno ad impattare, di conseguenza, tutta la filiera.
Meno passaggi, meno attori, migliore redistribuzione degli introiti per tutti.
Di nuovo, dura lex sed lex.
Ma non necessariamente tutto viene per nuocere. La connettività progredita ci consente ormai di comprare online i nostri titoli preferiti. Ai miei/nostri tempi (neanche fossi un nonno che cavolo…) potevamo sognare la scelta di cui dispongono le nuove generazioni. Comprare Yakuza 4 direttamente da un e-shop giapponese e vederlo recapitato 5 giorni dopo presso casa nostra mentre siamo ammalati e non abbiamo ancora mai messo piede un fuori? Impensabile fino a dieci anni fa.
Paradossalmente, se parliamo di retrogaming, il negozietto avrebbe molta più possibilità ora di acquisire clientela. Esce Metal Gear Solid 4. Capolavoro. Ma quale occasione migliore per prendere da parte il fanciullo e spiegargli che Kojima ha partorito quest’idea quando lui non era nemmeno nato e che il frutto di quel lavoro è ancora, seppur con qualche difficoltà, ancora commercialmente reperibile?
Il problema continuano però ad essere “i dané”. Le spese per un esercizio del genere sono tante così come il rischio d’impresa ed ecco che l’attività si trasferisce sul terreno online dove, comunque, sapendoci fare, la visibilità (grazie alle piattaforme di e-commerce più famose) la si può conquistare davvero. Ed è, a differenza di molte altre cose, effettivamente meritocratica.
Se sei bravo nel tuo lavoro, i feedback positivi arrivano e di conseguenza i guadagni.
Ecco quindi spuntare diversi negozi dedicati al retrogaming, all’import parallelo, ma solo con un riferimento nel grande mare della Rete.
Niente porte che cigolano ed annunciano l’arrivo di nuovi clienti. Niente vetrine colorate e disordinate. Niente cartucce impolverate che attendono di essere rimesse a nuovo.
Digital delivery e pigrizia o scomodità e ricordi un po’ vintage?
Forse non è il caso di prenderla come fosse una dicotomia e forse sono solo un po’ nostalgico dei vecchi tempi.
Forse…è solo una grigia giornata milanese.