“Cosa serve per fare innovazione in Italia?” è una domanda che sento spesso porre ai vari eventi cui sono presente e che alcuni amici rivolgono certe volte a me. Lasciandomi un po’ spaesato, aggiungo, perché non si tratta certo di una domandina a risposta chiusa, ma è anzi solo la premessa di un lungo (forse infinito) ragionamento.
Innovazione vuole dire crescita, invenzione, novità, futuro: concetti decisamente lontani da quella che è, oggi, l’Italia. Si capisce subito che “fare innovazione” è qualcosa di estremamente difficoltoso in questo ambiente, ma oltre a piangerci addosso è possibile fare qualcosa?
Io penso che in questo momento più che “fare qualcosa”, nel senso attivo del termine, serve “lasciare fare qualcosa”, nel senso passivo. Mi spiego. Le istituzioni, scuole, università, pubbliche amministrazioni, ecc. sono essenzialmente dei freni all’innovazione, così come operano oggi in Italia, non in senso assoluto, ovviamente.
Clientele, iniquità, burocrazia, corruzione e tanti altri mali hanno nei decenni corroso e incrostato queste istituzioni, rendendole non solo di nessun aiuto ai giovani innovatori, ma addirittura trasformandole in fonte di attrito e freno.
Nonostante ciò, ci sono tante persone che sono riuscite a coltivare il proprio talento in autonomia e, mentre il Paese gli remava contro, hanno generato valore e vogliono fare innovazione. Di fronte a queste persone l’unica cosa che l’Italia, intesa come sistema Paese, deve fare è un passo indietro.
David Orban, CEO di Questar e co-fondatore di OpenSpime, a More than Zero ha provocatoriamente proposto di modificare la Costituzione per risolvere questo problema. Oggi la Costituzione stabilisce che la Repubblica Italiana è fondata sul lavoro, mentre potrebbe essere una buona idea modificarla nel senso che la Repubblica non solo garantisce il lavoro, ma anche un salario decente per tutti.
Di più, David Orban suggerisce di stipendiare anche chi non lavora, del resto è già così oggi: quanti milioni di Italiani prendono soldi senza produrre nulla? Una sola condizione è però posta: “ti pago, ma levati dalle palle!”. Cioè: non ostacolare il lavoro di chi invece ha voglia di innovare, di fare, di cambiare.
La provocazione è secondo me molto interessante perché punge da un lato la nostra società piena di parassiti che non solo non producono, ma pure ostacolano, e dall’altro giustamente evidenzia il fatto che non tutti siamo portati ad essere innovatori. L’essere geniali è cosa da pochi, non è certo una colpa non esserlo, ma è certamente una colpa rallentare chi ha la forza di operare il cambiamento.
È chiaro che oggi in Italia, nonostante fin dalla scuola primaria la creatività del bimbo venga soffocata, vi sono delle persone che, grazie alla loro bravura, riescono comunque ad emergere. Serve quindi che gli altri facciano un passo indietro e che si dia più spazio al merito.
Facile? Tutt’altro, ma è l’unico modo per salvare il salvabile nel breve periodo. Per il lungo occorre un approccio disruptive su istruzione, università e ricerca che però, una volta compiuto, richiede qualche decennio per dare i suoi frutti.