Chi credesse che la trasformazione degli utenti in produttori attivi di contenuti, spesso di qualità non trascurabile, sia avvenuta nell’epoca del cosiddetto Web 2.0, tenga le orecchie bene aperte: vi presento Pegacity, la prima città virtuale italiana, nata nel 1996 dalla fantasia e dal lavoro gratuito di alcuni appassionati, pionieri delle potenzialità sociali della rete.
Città virtuale, sì, perché una delle idee fondamentali dietro al progetto, era quella di trasformare ogni utente in un “cittadino”, dotandolo innanzitutto della sua “casa”, ossia di una propria home page – di dimensione inizialmente limitata a 200k! – in cui esprimere le proprie idee in libertà.
Era la fine degli anni ‘90, un’epoca in cui Internet non era ancora vittima – almeno in Italia – degli interessi speculativi poi esplosi con la bolla della new economy. Era anzi popolata e animata da personaggi – come Clay, primo cittadino e fondatore della città – motivati da passione e sincero interesse per le nuove modalità d’interazione in rete e, perché no, anche da imprenditori cazzuti abbastanza da ospitare sui propri server un progetto simile per nient’altro che la gloria.
Proprio come fenomeno emblematico del nuovo medium, Pegacity fu, nel 1997, ampiamente citata in uno dei primi libri che andavano ad esplorare i risvolti sociologici della rete Internet: Incontri virtuali. La comunicazione interattiva su Internet, di Fabio Metitieri e Giuseppina Manera, edito da Apogeo.
In un mondo -reale e virtuale- dove tutti cercano di fagocitare le altrui esperienze sommergendo le voci piu’ deboli sotto valanghe di consumismo e arrivismo sociale, PegaCity vuol dare voce a tutti, in un’ottica di sviluppo e di aggregazione che fa dell’uomo il centro della propria energia, senza troppe pretese. E non ci sembra cosa da poco.
Dare voce a tutti: era questo l’obiettivo della città, molto prima che il concetto di user generated content divenisse protagonista dei business plan di mezzo mondo, dando vita ad una pletora di servizi che ormai si contendono gli utenti come se fossero i fagioli nel barattolo di Raffaella Carrà.
La divisione in aree tematiche – i cosiddetti rioni – gestite dagli stessi cittadini, fece in breve della città un luogo di intensa produzione culturale, oltre che di interazione e condivisione d’informazioni. La struttura del sito web, più e meglio di quella di newsgroup e mailing list consentiva infatti l’organizzazione e la gestione dei temi e delle rubriche.
Con i primi anni del ventunesimo secolo, iniziò la parabola discendente di Pegacity: da un lato la concorrenza dei blog, dall’altro i sempre più elevati requisiti di banda – la città raggiunse e superò i 10.000 abitanti – misero in crisi la città del cavallo alato, che per anni aveva resistito all’introduzione di logiche commerciali.
Internet stava diventando grande e col moltiplicarsi del numero di utenti, l’erogazione di servizi era sempre più roba da grandi aziende. I piccoli provider come Areacom, quello che aveva reso possibile il “miracolo” di Pegacity, erano incorporati da grandi gruppi o spazzati via.
Fu così che nel 2003 Pegacity scomparve, chiudendo quell’epoca pioneristica e se vogliamo un po’ romantica, in cui non era solo con la partita doppia che si misurava la qualità di un sito.
Per chi volesse approfondire, ecco la storia di Pegacity raccontata dal suo primo cittadino, Clay.