Quella dell’informatica è – anche – la storia di una progressiva semplificazione. Molta della potenza elaborativa maturata dai computer nel corso degli ultimi 30 anni è stata spesa per la gestione di tecnologie non strettamente funzionali all’operatività della macchina. Tecnologie il cui unico scopo era ed è quello di rendere l’uso del computer più semplice ed intuitivo.
Se negli anni ’70 l’interazione con la macchina richiedeva ancora un accesso a basso livello sull’hardware, già negli anni ’80 BIOS e DOS fornivano le funzionalità essenziali per consentire all’utente di concentrarsi sull’esecuzione di applicativi. Il decennio successivo vide il trionfo della GUI e, con essa, la fase di maggior crescita mai registrata dal mercato PC.
In effetti semplificazione e crescita del mercato vanno da sempre di pari passo: se è solo a un gruppo di hobbisti o super-tecnici che si può domandare di interagire con un computer negli anni ’70, le interfacce semplificate di alcuni recenti netbook o tablet rappresentano probabilmente la chiave per aprire il mondo del computer anche a un pubblico totalmente digiuno.
Veniamo al dunque: mi capita spesso di confrontarmi con utenti più o meno smaliziati che, con argomentazioni più o meno consistenti, giudicano negativamente il processo di semplificazione della tecnologia che ne ha prodotto la diffusione di massa.
Oggi come allora, Ubuntu fa storcere il naso ai puristi di Linux quanto la GUI faceva storcere il naso ai guru di Unix e, probabilmente tanto quanto il BASIC faceva storcere il naso ai “sacerdoti dell’opcode”.
Una delle argomentazioni più frequenti che si ascoltano affrontando questo tema è la seguente: se la macchina sceglie per te, preserva il tuo stato d’ignoranza rispetto a quello che avviene “sotto il cofano”.
In termini meno raffinati, se usare il computer diventa semplice come adoperare un elettrodomestico – si domandano spesso i detrattori della semplificazione – quando capirai mai quali sono le potenzialità dell’hardware che stai usando?
In una linea che vede a un estremo il massimo controllo sull’hardware e all’altro la massima semplicità d’uso rispetto a un set di funzioni predeterminato, i critici della semplificazione – con autentico spirito “hacker”, ivi compreso un certo senso di superiorità – si collocano nettamente dalla parte del controllo sull’hardware.
La massa, che si avvicina a un computer per risolvere un problema estremamente pratico e circoscritto – non certo per il gusto di conoscere le potenzialità dell’hardware – propende ovviamente per l’estremo opposto.
A valle di quest’analisi devo confessare che la mia posizione rispetto a questa diatriba è piuttosto ambivalente. Da un lato mi ritengo fortunato per aver conosciuto un’epoca in cui usare il computer significava sporcarsi le mani, anche fisicamente.
Dall’altro non tollero la strafottenza di chi pretende di imporre al prossimo un approccio da “hobbista” – per essere hobbisti è necessario essere appassionati ma oggi il computer lo si usa anche per lavoro, anche controvoglia.
Lavorando ogni giorno col computer, comprendo perfettamente chi alla macchina richiede nient’altro che l’assoluzione di una funzione, senza interessarsi minimamente alla tecnologia sottostante.
Volendo trovare una posizione di sintesi, benché non mi schieri fra le fila dei più entusiasti fan della massificazione in senso lato, non posso non accettare volentieri la “democratizzazione” della tecnologia (avrei semmai preferito che si fosse realizzata in modo più aperto e plurale, meno prono alle posizioni dominanti).
Il motivo è semplice: qualora ne avessi tempo e voglia, nessuno mi vieterebbe oggi di mettermi a smontare e rimontare l’hardware o eventualmente piegare il software ai miei bisogni per il gusto di farlo. Nel mentre sono ben felice di non dover interessarmi a ogni singola operazione che la macchina svolge durante l’uso.