La Valigia del Videogamer è nata due anni (abbondanti) or sono con il preciso scopo di ricomporre quel complesso puzzle rappresentato dal mondo dei videogiochi.
In un arco temporale così (relativamente) breve è impensabile coprire tutti gli argomenti possibili. Bisogna fare delle scelte a volte fastidiose.
Lo sport è una parte importante della vita sociale, penso lo amiamo tutti, ciascuno con le proprie preferenze. La rubrica non ne ha parlato così spesso, ma questo non significa che non occupi posti importanti anche nella storia dell’industry.
Per rifarci all’attualità, totem quali Pro Evolution Soccer sono ormai parte dell’Olimpo dei videogiochi. La stessa Electronic Arts ha legato il suo successo al passato glorioso di saghe nate negli anni ’90, basti pensare a FIFA o NBA Live.
SEGA continua a vivere grazie anche a simulazioni di spessore come Virtua Tennis.
I nostri appuntamenti hanno privilegiato fino ad ora la pallacanestro con il rivoluzionario NBA Jam e Street Hoop, titolo per il mitico Neo Geo.
Ci sarà spazio anche per altri pezzi da 90 ma oggi ci concentriamo su un titolo che ha fatto letteralmente impazzire gli appassionati del genere, dalle sale giochi alle conversioni casalinghe.
Parliamo infatti di Hang On.
Rilasciato nel 1985 come coin-op colpì subito il pubblico per la sensazione di velocità che riusciva a dare in confronto al panorama, al tempo non eccelso in realtà, degli altri gioco motociclistici.
SEGA le aveva pensate davvero tutte, fornendo un cabinato che riproduceva piuttosto fedelmente la migliore amica dei centauri, la moto ovviamente.
La struttura utilizzata seguiva piuttosto fedelmente l’imprinting dato alla stragrande maggioranza dei titoli del genere racing, con una struttura a checkpoint presenti alla fine di ogni stage, il cui superamento era possibile solo nei limiti di tempo previsti dal gioco stesso.
Similmente ad Outrun, non ci sono quindi i classici giri (o laps come la terminologia inglese vorrebbe), ma un lungo tracciato che vede cambiare il panorama circostante mano a mano che si progredisce.
La visuale utilizzata era il retro della motocicletta, in modo tale da permettere un’ampia visuale al giocatore e tenere sotto controllo al tempo stesso i movimenti del mezzo.
Nonostante fosse un titolo con una vena assolutamente arcade, la fedeltà dei movimenti, le pieghe sulla strada, la concentrazione da mantenere lungo tutta la corsa erano caratteristiche di una simulazione a tutti gli effetti.
Forse questo era la principale ragione dell’accoglienza positiva per Hang On, il quale a metà degli anni ’80 (ragazzi parliamo di venticinque anni fa), rappresentava lo spot più alto fino ad allora raggiunto per i giochi di corsa motociclistica. E nonostante la difficoltà fosse tarata (pur essendo un coin-op e quindi, come filosofia, tenda a mangiare gettoni più del normale) su un livello troppo alto, il successo spinse la SEGA a portarlo sulla buona parte delle console del tempo e continuare lo sviluppo del filone con il successore, Super Hang On, di cui ricordiamo l’ottima conversione su Mega Drive.
Non va infine dimenticato un ulteriore motivo di interesse che accompagna lo sviluppo di Hang On e si riferisce alla persona che l’ha ideato. Un giovane programmatore, assunto da un paio d’anni alla SEGA, appena ventiseienne fu incaricato del progetto. Il suo nome era Yu Suzuki. Guidando un’altra neonata creatura come l’indimenticabile AM2 Team (responsabili di buona parte dei capolavori della casa nipponica), fece intravedere alcuni dei tratti fondamentali e distintivi dello stile che avrebbe accompagnato tutti i titoli firmati Suzuki.
La capacità di immergere totalmente il giocatore nell’azione, l’importanza del panorama attivo e la propensione a pensare in termini “3D” sono tutte caratteristiche che abbiamo ammirato ad esempio in Shenmue.