Con questo articolo inizia un mini-ciclo dedicato alla seconda generazione. La domanda sorge spontanea, diceva una volta un famoso giornalista RAI: perché?
Molti addetti ai lavori, me compreso per quanto valga la mia opinione, ritengono questa fase dell’industry il primo vero tentativo di trasformare la ricerca poi diventata hobby in un prodotto di consumo di massa.
Il videogioco, creatura militare ed accademica, diventa uno strumento per fare soldi.
Lo stesso settore si può dire ancora non esistesse, ma di fatto sono proprio questi gli anni in cui i grossi marchi pongono le basi per diventare quel che sono adesso (pensiamo a Microsoft) e che sono stati (Atari) o per spostare il proprio core business verso l’electronic gaming; abbiamo infatti già accennato più volte alla storia di Sega e Nintendo nei nostri precedenti appuntamenti.
Non significa che non verrà affrontata la nascita del videogame o verrà accantonata la pur importante Generazione-1, solo rimandata a tempo debito come promesso.
Il secondo motivo è una riflessione doverosa conseguente ai vostri numerosi feedback negli articoli sul periodo in questione. Ricordare Pong, Bubble Bobble, Atari ed altri mostri sacri degli anni 70 ha evidentemente risvegliato nei bambini/adolescenti di allora nostalgie felici e spensierate.
Mi sembrava giusto quindi un omaggio agli appassionati che spesero parte delle proprie finanze e tempo contribuendo a far diventare il mondo dei videogiochi quel che è adesso.
Siete pronti a intraprendere questo viaggio?
Il post di oggi, immagino l’abbiate intuito, tratterà l’inizio della 2G. E consterà di due parti perché due sono state le console che hanno dato il la al secondo ciclo.
La prima, protagonista odierna, si chiama 1292 Advanced Programmable Video System.
Di seguito sviscereremo alcune note interessanti sia sul produttore, sia sulle modalità di commercializzazione oltre naturalmente alla consueta breve analisi tecnica della macchina.
L’Europa ha perso da tempo lo scettro dell’innovazione e più in generale l’Occidente ha visto il cambio di leadership nell’industria dei videogiochi a favore dell’Asia (o meglio il Giappone in particolare).
Eppure, ormai decenni or sono, ci fu un momento in cui le aziende del nascente ITC investivano credendo nei progetti dei propri ingegneri. L’Italia portò l’esempio, non unico a dire il vero, dell’Olivetti, cavallo di battaglia dell’innovazione e che poteva tranquillamente rivaleggiare contro mostri sacri come l’IBM.
Siamo dunque in questa fase storica, l’inizio degli anni ’70.
Laurie Scott sua figlia Laurie Jr ed il fratello Ken fondarono una società chiamata Radofin Electronics Ltd, con sede a Londra in King Street, via piuttosto famose del quartiere Hammersmith.
Il core business in principio furono le radiosveglie, ma ben presto il successo portò ad allargare gli orizzonti tanto che nel 1974 furono tre le società capitanate dagli Scott: la casa madre londinese, la Radofin of Liechtenstein (creata probabilmente per i vantaggi fiscali di cui gode questo piccolo Stato) e la Radofin of Far East, in Hong Kong, dove era stato delocalizzato tutto il ramo produttivo, per i ben noti bassi costi di manodopera.
L’elettronica stava diventando sempre più presente nella quotidianità del cittadino e la calcolatrice uno dei bisogni più comuni. Fino al 1976 su questo specifico prodotto si era focalizzata l’attenzione di Laurie con risultati clamorosi tanto da portare l’azienda in soli due anni ad essere uno dei leader del settore.
Ma proprio nel 1976 avviene la svolta.
L’esempio di Nolan Bushnell e della neonata Atari non era affatto passato inosservato, nemmeno oltreoceano nonostante le informazioni non viaggiassero così rapidamente come ai giorni nostri.
Erano anche gli anni in cui Bill Gates ed altri giovani rampanti della Silicon Valley teorizzavano la diffusione del pc. Celebre la citazione proprio del fondatore di Microsoft: “vedo un computer su ogni scrivania e uno in ogni casa”.
La Radofin disponeva delle risorse, dei mezzi finanziari e della capacità di marketing per entrare a gamba tesa nel nascente settore dell’industria d’intrattenimento, così il consiglio d’amministrazione decise di rischiare, anche perché ormai il boom delle calcolatrici era terminato ed occorreva spostarsi su altre direzioni meno inflazionate e più remunerative. Diversificare prima di tutto.
Così nel settembre del 1976, il 1292 Advanced Programmable Video System diventa realtà.
A voler essere pignoli il Fairchild, uscito un mese prima, è il vero capostipite della seconda generazione, ma la cronologia così ravvicinata ed il fatto che i produttori lavorassero parallelamente senza grossi contatti porta a sostenere che la palma di primo arrivato sia un premio da assegnare ex aequo.
Assolutamente innovativo per l’epoca ma tutto sommato esempio quasi unico nell’industria dei videogiochi fu la commercializzazione del prodotto.
Oramai siamo abituati, perché è il sistema che funziona e garantisce introiti a tutti gli attori, a vedere da una parte hardware proprietario, dall’altra il software licenziato per una o più macchine, con in mezzo complicati meccanismi di royalty, merchandising e tutto quel che un accordo commerciale da svariati milioni di dollari può prevedere nel 2010.
Tenere sotto controllo lo sviluppo della componentistica, garantire un determinato servizio d’assistenza è essenziale nel workflow di una multinazionale che si occupi di videogiochi, ma non solo. Apple lo ha provato sulla propria pelle con il celebre aneddoto dei “cloni” di qualche lustro fa.
Radofin invece credeva fermamente in questo business model. Ci credette a tal punto da cedere la produzione ad altre compagnie di terze parti tramite accordi di licensing: Hanimex e Fountain in Australia, Audiosonic e Lansay in Europa, Grandstand e Prinztronic nel Regno Unito furono alcune delle società pronte a raccogliere l’invito e l’opportunità.
Accordi dimostrati dall’esistenza di brevetti nei maggiori Stati europei, Italia compresa.
Nella maggior parte dei casi si trattava solo di una rimarchiatura del prodotto finito ma occasionalmente i produttori si sbizzarrirono nel cambiare anche lo chassis del prodotto.
Il punto fondamentale era garantire la compatibilità tra diverse macchine e questo fu possibile adottando la stessa componentistica e la stessa tipologia di supporto.
Entriamo nei dettagli:
- CPU: Signetics 2650AN ad 8 bit con clock 4.43 MHz
- RAM: 4 KB
- Video: coprocessore dedicato Signetics 2636N con clock 3.58MHz in grado di indirizzare fino a 32KB di memoria e visualizzare fino a 4 sprite sullo schermo
- Audio: 3 canali
- Supporto: cartuccia 32 pin
- Periferiche: 2 joystick con tastierino da 12 tasti incorporato
L’hardware è speculare ad un’altra creatura dell’epoca, l’Interton VC4000, nato in Germania ben due anni prima del 1292 APVS ma commercializzato solo nel 1978 a causa di alcuni problemi nella produzione in serie, di cui parleremo in altra sede.
Anche i giochi furono spesso dei meri porting dall’Interton e se ne contano in totale quasi una quarantina di cui alcuni, come facilmente prevedibile, estremamente rari; in particolare le poche fonti menzionano il gioco di scacchi.
La seconda generazione era dunque cominciata, la generazione “early 8 bit” come qualcuno la definisce, ma più semplicemente il periodo che precedette il crash del 1983; si concluse con esso in modo traumatico e cambiò per sempre la percezione del videogioco non più vezzo geek ma vero e proprio prodotto di massa.