Quasi fin da quando esistono i videogiochi, esiste la pubblicità nei videogiochi. In forma più o meno subliminale, e sempre secondo un modello di gestione non molto trasparente, siamo da anni oggetto di una costante azione di visibilità, nelle simulazioni sportive ma non solo, che ultimamente sta acquisendo un ruolo importante e un valore di mercato cospicuo.
Il ruolo diventa importante perché l’in-game-advertising (da ora IGA) va a colpire una fascia di pubblico che sempre meno fruisce dei media tradizionali. Acquisisce poi un valore cospicuo, e qui parlano le cifre: una crescita stimata di circa il 1000% da ora al 2012, anno in cui il mercato si prevede passerà dall’attuale fatturato di circa 80 milioni di dollari a qualcosa di simile a un miliardo.
L’importanza dell’in-game-advertising è inoltre sottolineata dalle potenzialità partecipative che il mezzo offre: nei videogame online e offline, è infatti pensabile non solo una visibilità dei brand sponsor, ma un livello più elevato di interazione col target, che risulta in una maggior efficacia del messaggio.
È indubbio che l’avvento dell’online nel mondo del gaming, spinga le potenzialità dell’IGA ad un livello sconosciuto dal gaming tradizionale, ma proprio per questo sarebbe il momento di chiedersi in che modo il “target” beneficia delle economie generate dall’advertising a cui è sottoposto.
Proprio nell’era del web, l’advertising ha azzerato il costo all’utente di servizi altrimenti destinati ad essere fruiti a pagamento, e le applicazioni gratis si sono moltiplicate a dismisura fino a divenire la norma.
Se nel caso del web le dinamiche sono state queste, per quale motivo nel gaming – un mercato che tra l’altro è in forte crescita – non vediamo sponsorizzazioni palesi e tentativi espliciti di redistribuirne gli introiti sul prezzo di acquisto o sui canoni di abbonamento che il pubblico utente paga?