Non so più se ridere o se piangere. Dalle parole di Jennifer Pariser, avvocato della Sony BMG chiamato a testimoniare in un’udienza del processo “Capitol Records, et al VS Jammie Thomas”, oggi apprendo che “Quando un individuo copia una canzone per suo uso personale […] possiamo dire cha ha rubato una canzone.” Infatti fare “una copia” di una canzone acquistata regolarmente rappresenta nient’altro che “un modo carino di affermare che abbia rubato solo una copia”.
In altre parole, la maggioranza degli utenti di musica può essere ritenuta colpevole di pirateria. È ben noto infatti che solo una piccola percentuale delle decine di gigabytes a disposizione dei player multimediali di ultima generazione, provenga da negozi musicali online. La gran parte, ammesso che non provenga dal file sharing, è stata rippata da CD già in possesso dell’acquirente.
I tentativi di ridurre la proprietà della musica acquistata al solo supporto che la contiene, digitale o fisico che sia, raggiungono dunque una meta inesplorata: la contestazione esplicita della più essenziale delle garanzie che l’ormai asfittico concetto di fair use prevede. Una dichiarazione del genere va ovviamente a braccetto con le poderose campagne di lobbying delle major, finalizzate a soffocare per legge l’idea stessa di fair use.
Ad ostacolare questa crociata, più di quanto non possano i consumatori, saranno però altri interessi economici: per esempio, quelli di chi oggi introita dalla vendita di dispositivi che l’abolizione del fair use metterebbe quasi fuori legge.
E anche questa volta i diritti di noi poveri consumatori seguiranno l’odore dei soldi.