Ieri mi stavo scervellando per voi e nel pescare nel calderone della memoria ho recuperato un gioco passato un po’ inosservato ma a suo tempo interessante.
Mi sono ricordato, in particolare, di averlo visto negli spot del Game Gear con qualche estratto di gameplay mescolato ad altri nei tipici collage commerciali dell’epoca.
Abbiamo già affrontato il passato non troppo fortunoso della console SEGA. Eppure, le potenzialità tecniche c’erano tutte: lo schermo a colori, la potenza computazionale.
Come per l’Atari Lynx probabilmente nemmeno il mercato era pronto ad affrontare la tipologia di console portatili che le case produttrici offrivano, ingombranti e con poca autonomia (perché la tecnologia del tempo non consentiva la possibilità di miniaturizzare i componenti come è possibile al giorno d’oggi).
Nonostante ciò la soft-teca rimaneva interessante.
Lasciamo stare per ora il simbolo Columns, presente di default nel bundle, Streets of Rage, anche questo già protagonista delle nostre cronache e più che dignitoso porting, Sonic di cui ho promesso di dedicherò un’ampia puntata della rubrica ma concentriamoci su Chakan: The Forever Man.
Cominciamo col dire che non è stato uno di quei titoli capolavoro che si possano definire imprescindibili in qualsiasi collezione di un retrogamer che si rispetti, eppure alcuni caratteri di originalità lo rendono interessante ed eleggono ad argomento protagonista di una più estensiva trattazione come quella che cercheremo di fare oggi.
Il primo elemento di interesse è dato dalla scelta del protagonista.
Da sempre, non solo nel business dei videogiochi ma più in generale dell’industria di consumo e cultura, la scelta del personaggio anti-eroe è complessa e spesso lasciata in secondo piano rispetto al classico “buono” della situazione. Per una serie di motivi. Il pubblico più giovane fatica ad identificarsi con il “villain”, subisce magari sì il fascino dell’oscurità ma, vorrebbe poi veder trionfare il bene ; e pretendendo l’happy ending disneyano si apre una dicotomia quasi sempre insanabile tra quel che lo spettatore o il giocatore si attendono e quel che invece lo script suggerirebbe.
Con alcuni titoli molto discussi e controversi quali Carmageddon (datato 1997), là dove il dubbio nella scelta tra “bene” e “male” in realtà non esiste e vengono portati all’eccesso, proprio perché la finzione del gioco lo consente, l’industry ha allargato le proprie maglie, è aperta maggiormente alla possibilità di considerare il tradizionale antagonista come fulcro, invece, cui far ruotare un intreccio ed un videogioco.
Ma verso la fine degli anni ’80 ed inizio ’90 la situazione era molto diversa.
Proprio tra le fila SEGA, è giusto ricordare Splatterhouse (saga horror di cui abbiamo già tessuto le lodi un paio d’anni fa). Anche Venom, l’icona Marvel e nemesi dell’Uomo Ragno, si era conquistato un suo piccolo spazio, ma per il resto i titoli si contavano sulle dita di una mano.
Chakan entra di diritto in quella lista.
Basato su un fumetto nato dalla penna di Robert Kraus, narra le vicende di un guerriero, così fiero e fiducioso delle proprie abilità nell’arte della guerra e della spada che si dichiarava più forte della morte stessa. Sentendosi chiamato in causa, Ade fece un giorno la sua comparsa e propose la sua sfida. Se Chakan fosse stato il vincitore si sarebbe guadagnato la vita eterna, altrimenti sarebbe stato suo servo per sempre.
Pur sconfitto, il Dio della Morte tenne fede al suo impegno ma accompagnò il dono ad una maledizione terribile; al calar delle tenebre, quando il Male prende il sopravvento il dolore dei nemici sconfitti da Chakan sarebbe diventato anche il suo dolore.
Questo finché non fosse stato in grado di eliminare quattro forze soprannaturali: la Mantide, la Regina-Ragno, Elkenrod ed il Re Libellula.
Così comincia la sua e la nostra avventura.
Ciascun boss corrisponde ad uno dei quattro elementi che costituiscono la natura ed identificati fin dai tempi dei romani: aria, acqua, fuoco e terra.
Inoltre, ogni livello concede l’uso di una particolare arma collezionabile dal nostro protagonista, un meccanismo ripreso poi da titoli più blasonati e recenti quali ad esempio God of War III.
Anche la tipologia di gioco è curiosa e si configura come un mix di generi che passano per il più classico action in stile Golden Axe (l’uso delle magie ricorda molto da vicino il capolavoro fantasy del 1989), con svariati elementi di platform (vedasi le trappole disseminate qua e là sullo schermo) fino alla graphic adventure condita da quel gusto del noir così difficile da trovare nei videogiochi di venti anni fa.
L’uso del croma infine rivela tutta la natura dark di questo gioco.
La prevalenza del nero e delle tonalità scure, l’assenza quasi totale di luce nel progredire immergono il giocatore nelle ambientazioni di disperazione e desolazione volute fortemente dal devteam.
Quasi come l’inferno dantesco il messaggio sembra essere “lasciate qui ogni speranza voi ch’intrate”. Più si va avanti, più ci si accorge di come non vi sia redenzione, non vi sia un messaggio positivo.
Le fiamme sempiterne che decorano lo stage, il design dei nemici allo stesso tempo curato e mostruoso
nel suo carattere “horrorifico”, anche la colonna sonora da la dimensione di inquietudine e solitudine che può terminare solo alla conclusione del gioco.
Un gioco per altro piuttosto sbilanciato, forse troppo, sulla difficoltà che lo rende sì longevo ma al tempo stesso, in più punti, decisamente frustrante.
Non è un capolavoro, non ha sbancato il botteghino ed è difficile affermare che Chakan abbia fatto scuola ma negli anni in cui dominava il buonismo e l’approccio cartoonesco alla Sonic&co., provare qualcosa di così diverso dalla massa può regalare delle soddisfazioni.