Se negli anni ’90 il computer diventa un oggetto di massa, fra la metà degli anni ’70 e i primi anni ’80 la fetta maggioritaria dell’utenza di home e personal computer è rappresentata da un pubblico più tecnico.
In questa puntata della rubrica dedicata ai pionieri e ai tanti bon sauvage dell’informatica, ci occuperemo per l’appunto di una nicchia dell’industria software nata e cresciuta fra le community informatiche della prima ora: lo shareware.
Che si tratti di un hobbista stile Homebrew Computer Club, convertito alla tastiera e al BASIC dopo anni di smanettamento con gli interruttori del MITS Altair, o piuttosto del rampante nerd dodicenne che muove i primi passi nel mondo della programmazione sulla tastiera gommosa di uno Spectrum, l’utente della prima ora è molto interessato ad un uso esplorativo del computer.
Uso reso più agevole dalla penetrazione sul mercato del BASIC, vera killer application per il mercato degli home computer, strumento attraverso il quale schiere di giovani coder sperimentano la propria inventiva sul nuovo e affascinante oggetto elettronico.
Che si tratti di smanettoni giovani o più stagionati, la crescente familiarità di questo pubblico con la programmazione, dà vita a una ricca produzione di software hobbistico un po’ in tutto l’occidente. Software che nasce spesso come risposta a problemi specifici dell’utente più che come veicolo di business.
Corre l’anno 1983. Un bel giorno tale Jim Knopf, poi ribattezzato Jim Button (Knopf in tedesco è l’equivalente di “button” in inglese), decide di rendere disponibile a una cerchia di colleghi il prodotto di ore di lavoro nel tempo libero: un piccolo programma database creato col BASIC dell’Apple II, nato per collezionare la lista di indirizzi postali di una congregazione ecclesiastica locale.
Attraverso il meccanismo del passaparola, il programma si diffonde tanto da diventare per Knopf un vero e proprio secondo lavoro – il primo lavoro lo svolge come programmatore in IBM. A questo punto, con una mossa che lo collocherà negli annali della storia informatica, Knopf decide di allegare ad ogni copia del suo programma – diffusa tramite floppy o BBS – una nota in cui domanda agli utenti di versargli una piccola somma di denaro nel caso in cui trovino il programma di qualche utilità.
Knopf ha la fortuna di vivere e lavorare negli USA, e le donazioni diventano tanto numerose da consentirgli di lasciare il posto alla IBM per dedicarsi a tempo pieno al programma, che nel frattempo ha preso il nome di PC-File.
Di più: assieme ai contributi arrivano suggerimenti, segnalazioni di bug, richieste di nuove feature, che consentono a PC-File di evolversi e diventare un prodotto di grande utilità per una community utente sempre più vasta e attiva, anche nei feedback all’autore.
Più o meno assieme a Knopf – che si definisce il “padre dello shareware” – ma dall’altra parte degli USA, un altro programmatore hobbista, Andrew Fluegelman, inizia nello stesso modo la sua avventura nel mondo shareware con PC-Talk, un piccolo programma di comunicazione.
Assieme a Knopf e Fluegelman, Bob Wallace (poi dipendente n° 9 di Microsoft) merita una doppia menzione, in quanto autore del popolarissimo word processor shareware PC-Write e inventore della parola “shareware” (Fluegelman qualche anno prima aveva coniato il termine “freeware”).
I semi lanciati da Knopf, Fluegelman e Wallace, attecchiscono su un terreno fertile: gli utenti – particolarmente quelli poco o non interessanti alla montante ondata di software videoludico – sono assetati di programmi che gli consentano di sperimentare usi pratici del computer. La voglia di smanettare è tanta ma i prodotti delle prime corporation del software hanno spesso costi impraticabili per l’amatore.
CD-ROM, BBS e Compuserve moltiplicano la portata del fenomeno shareware, sottraendolo ai limiti geografici del passaparola e dandogli, in pochi anni, la dignità di un vero veicolo di marketing, attorno cui fiorisce un nuovo settore dell’industria software, con tanto di canali di distribuzione nazionali e vendita al dettaglio.
Come tutti i fenomeni grassroot, il mondo shareware è caotico, anarchico e del tutto disomogeneo in quanto a qualità e termini di licenza. Se l’ispirazione originale vuole il prodotto pienamente funzionale come miglior incentivo alla conseguente donazione, negli anni vengono sperimentate varie restrizioni applicate ai programmi non registrati, fra cui limiti di tempo (dopo un tot. il programma smette di funzionare), e funzionali (si vedano in proposito Wolfenstein 3D, Doom e Duke Nukem).
Se lo shareware sfocia spesso nel trialware, rimane vivo lo spirito del freeware e dello shareware illimitato, specie quando sostenuti dall’erogazione di servizi a valore aggiunto quali assistenza via e-mail o telefonica, diritto ad aggiornamenti software, manualistica in formato cartaceo.
Lungi dall’ammantarsi di valori etici o attribuirsi la missione di liberare l’umanità dalla morsa del capitalismo, la community di autori che dà vita allo shareware vede in esso un formidabile strumento di marketing ed un sistema di distribuzione estremamente economico, in cui la furbizia di qualcuno è ampiamente compensata dalla lealtà della massa.
Con i dovuti distinguo, in un’epoca in cui – per la grande industria software – il trial è quasi sempre molto limitato, gli aggiornamenti sono spesso un veicolo per mungere altri soldi all’utenza e l’assistenza rappresenta un costo a parte, è difficile non domandarsi se per prima sia venuta meno la lealtà degli utenti verso i produttori di software, o quella dei produttori software verso gli utenti paganti.