Per la libertà di espressione e l’esercizio della professione giornalistica si annunciano tempi duri.
Con i canali tradizionali di comunicazione, da sempre oggetto dell’attenzione di gruppi di potere politico ed economico, che si preparano a convivere con regole draconiane, in molti – anche fra gli autori ed editori di stampa e TV – vedono in Internet una via di fuga, uno strumento troppo fluido per rimanere impigliato nelle pur fitte reti normative che vanno delineandosi.
Mentre qualcuno (vedi p. es. Il fatto quotidiano 11/6/2010 p. 3), con l’ausilio di server localizzati su territorio straniero, e magari un’identità fittizia, si prepara ad una nuova stagione carbonara, il sottoscritto non riesce a togliersi dalla mente una visione molto più fosca di quanto già nera appaia la fase che si approssima.
Ho il timore che, piuttosto che sviluppare tutto il potenziale di condivisione, collaborazione e riflessione collettiva di Internet, le vie di fuga dal cd. “bavaglio” tenderanno a raggiungere per prime le zone più popolate della rete, quegli stessi social network dove le persone vanno a piantare cetrioli virtuali, scambiarsi foto del capo ubriaco alla fine dell’aperitivo aziendale o magari cercare compagnia maschile o femminile.
Dunque potremmo finire, nell’intervallo fra un raccolto e l’altro, a schiacciare un bel pulsante “like” sotto sentenze, proposte di legge, ordinanze di custodia cautelare, nomine e dimissioni. Il tutto mentre qualche politico, dopo i primi timidi passi sui social finirà – ben consigliato da qualche consulente dall’espressione immotivatamente gioiosa e vagamente asinina – per acquisirne la piena scienza.
A quel punto sarà più corretto parlare di “democrazia diretta” o piuttosto di democrazia formale? Lascerei volentieri l’ardua sentenza ai posteri, ma temo che toccherà a già questa generazione pronunciarsi.