Se non fosse nell’oceano Pacifico potremmo chiamarlo Atlantide, il continente sommerso, e se fosse abbastanza compatto potremmo pensare a un signore con la barba che cammina sull’acqua; il problema è che il Pacific Trash Vortex esiste , e c’è poco da scherzare.
L’esistenza di questa “zuppa di plastica” era stata segnalata per primo da Charle Moore, poi ripresa da Repubblica e dai forumisti di Hardware Upgrade ed è infine tornata alla ribalta in questi giorni, ottenendo almeno a livello internazionale l’attenzione che merita.
Nell’Oceano Pacifico c’è una gigantesca isola di rifiuti , grande il doppio degli Stati Uniti e profonda dai 10 ai 30 metri, che staziona a 500 miglia dalla California e ruota in senso orario a causa della corrente chiamata North Pacific Gyre. Poiché è traslucida e comunque non compatta non è visibile dalle foto satellitari (nè tantomeno da Google Earth, Maps o affini), ma è invece ben visibile quando ci si transita in mezzo con una barca.
Puntare il dito contro l’inquinamento è facile, e lo faremo subito: prima è bene considerare che parte del problema è imputabile alle perdite di carico delle navi portacontainer, perdite che sono molto più frequenti di quanto chiunque potrebbe immaginare, e che anzi in alcuni casi aiutano gli oceanografi a studiare meglio le correnti marine (abbastanza celebre è il caso delle paperelle di gomma che hanno navigato per i mari 15 anni).
Qualche post fa mi sono detto orgoglioso di vivere in un mondo in cui la tecnologia aiuta le persone che hanno subito la menomazione di un arto, ora mi tocca prendere atto del rovescio della medaglia e vergognarmi di vivere in un mondo che non riesce a smaltire i suoi stessi prodotti.
La scarsa cultura ambientale della maggior parte degli abitanti del mondo è certamente un problema, e nemmeno secondario, ma come vado ripetendo da anni la tecnologia deve trovare soluzioni, e non generare altri problemi: la plastica è senza ombra di dubbio una grande invenzione, ma non posso accettare che non si sia ancora trovato un modo per produrre plastica biodegrabile in un tempo ragionevole.
E in questo caso non mi risulta che ci sia un settore industriale pronto a gioire di questa isola artificiale di immondizia, per cui le ragioni economiche vengono meno. Ogni anno il 10% della plastica prodotta nel mondo finisce in mare, e l’isolotto al momento è stimato pesare 100 milioni di tonnellate. Vogliamo per caso aspettare che assuma una consistenza solida tale da permettere il trasporto su gomma tra Stati Uniti e Giappone, prima di fare qualcosa?
(in questa animazione di Greenpeace, cliccando “journey of trash”, ci si può rendere conto di come l’isolotto si formi in un arco temporale di 6 anni)