Ormai da diversi anni la potenza computazionale dell’hardware, sia che si tratti di console o di personal computer, consente di visualizzare scenari ed elementi grafici molto complessi, con un alto numero di elementi in movimento in grado di interagire tra loro.
Recentemente, per citare un esempio familiare a molti, ho avuto la possibilità di giocare a God of War III e sembra davvero di assistere quasi ad un film, non solo nei filmati d’intermezzo ma, questo è l’incredibile, proprio durante l’azione dei combattimenti.
I più giovincelli, legati alle ultime generazioni fanno fatica a rendersi conto di quale stacco si sia creato tra quel che il mercato ha proposto fino alla fine del secondo millennio e dal 2000 in poi.
Nonostante però la forte accelerazione degli ultimi anni, il superamento dei limiti è un processo che avviene sempre per gradi.
Ed ogni barriera abbattuta, nell’industry, viene segnata da una console o da un titolo in particolare.
Virtua Racing è uno di questi.
Cominciamo dal principio e dalle persone che l’hanno reso possibile.
AM-2 e Yu Suzuki. Se sono nomi a voi poco familiari allora mi permetto di dire che vi manca un bel pezzo di storia dei videogiochi degli anni ’90.
Il primo è un acronimo per indicare il SEGA Amusement Machine Research and Development Department 2, uno dei migliori team di ricerca e sviluppo di sempre dell’intero settore.
Tanto per capirci, a loro dobbiamo capolavori come Out Run, Space Harrier, Virtua Fighter, Ferrari F355 Challenge e l’indimenticabile Shenmue.
Yu Suzuki è stato il leader, per molto tempo, di questo gruppo. Spendiamo due parole anche su di lui.
Classe 1958, nonostante sia conosciuto nell’entertainment biz come una sorta di alter-ego di Shigeru Miyamoto, ha maturato una grande passione e conoscenze anche negli studi umanistici.
Grazie all’amore del padre per l’arte e la musica (che lo pose in grossa sintonia con un altro storico nome delle fortune della casa giapponese, Yuzo Koshiro), scelse di dedicarsi agli studi di calligrafia ed illustrazione nel periodo dell’high school.
La sensibilità diversa dagli altri suoi colleghi lo pose subito tra i giovani game designer più talentuosi del panorama degli anni ’80. Entrato in SEGA, al suo secondo anno di lavoro, nel 1985, rilasciò Hang On, famosissimo arcade basato sulla simulazione di moto da corsa.
Gli anni ’90 erano ormai alle porte e si respirava un’aria diversa, anche gli spot pubblicitari (ad esempio utilizzati per il Mega CD) riflettevano i gusti sempre più ricercati dei consumatori. Era chiaro che da lì a poco ci sarebbe stata una sorta di rivoluzione nel panorama dominato fino ad allora dalla terza e quarta generazione di console. Ed infatti nel 1994 sarà la Playstation a segnare definitivamente il passo e mandare presto in pensione “la vecchia guardia”.
Tra le tante idiozie perpetrate dal reparto marketing SEGA, la scelta del nome di questo nuovo progetto fu davvero azzeccato. La realtà virtuale era davvero una delle buzz word più in voga del periodo. Piccole e grandi perle come Tron ed Il Tagliaerbe avevano accresciuto la voglia del pubblico di prodotti che andassero oltre la visualizzazione di disegni in stile cartone animato, qualcosa che approssimasse, seppur magari in modo grezzo, il mondo reale.
E così nacque Virtua Racing. AM-2 prese a piene mani da un altro titolo del 1989. Hard Drivin’ fu il vero capostipite dei simulatori di guida 3D.
All’inizio non fu esattamente pensato come un videogioco, quanto come proof-of-concept che doveva servire allo realizzazione di una nuova piattaforma, il SEGA Model-1, in grado di elaborare scene 3D con sufficiente potenza di calcolo.
Durante i beta test però il gameplay risultò interessante e così la dirigenza decise di spingere oltre lo stadio di sviluppo e rendere il videogioco un prodotto stand-alone.
La sua prima apparizione fu in veste di coin-op. Il cabinato ebbe un enorme successo fin da subito nelle sale giochi giapponesi ed americane, anche perché era stato concepito soprattutto per uno scontro tra due giocatori umani (di fatto si trattava della fusione di due macchine in un solo chassis) e questo attirò non poco il pubblico, già rapito dalla sola grafica, per i tempi, assolutamente sbalorditiva.
Il numero di poligoni visualizzati ed il relativo framerate avevano raggiunto livelli impensabili se confrontati al lavoro di Atari con Hard Drivin’. Non solo gli scenari erano decisamente più accurati ma anche la sensazione di guida e della fisica simulata proponevano un livello di immersione all’interno del gioco mai visto prima d’allora. Non a caso, sulla stessa falsariga arriveranno altri incredibili successi come Daytona USA e Sega Rally.
Il rovescio della medaglia e che costrinse SEGA alla pubblicazione di soli 6 titoli su questa piattaforma, era rappresentato dai costi di produzione e complessità della scheda madre alla base del Model-1.
Questo rallentò la commercializzazione di una versione casalinga di Virtua Racing, la quale debuttò due anni più tardi, ovvero nel 1994.
Per superare i limiti imposti dall’hardware del Mega Drive, SEGA ricorse all’uso di un chip custom inserito direttamente all’interno della cartuccia del gioco, il quale doveva fungere da coprocessore matematico ed aiutare la console nel difficile compito di rende rizzare le scene più “trafficate” ed onerose dal punto di vista computazionale.
In contemporanea, Nintendo, come molti ricorderanno, aveva seguito la stessa strada attraverso la serie FX, che prendeva il nome proprio dal RISC utilizzato negli omonimi giochi, quali Star Fox o Stunt Race FX.
Nonostante il prezzo di lancio fosse decisamente più alto della media (all’incirca 100$) la realizzazione del porting fu assolutamente lodevole.
Tre tracciati, ciascuno corrispondente ad un livello di difficoltà e con tanto di struttura a checkpoint, proprio come l’arcade aveva proposto nel 1992.
La storia d’amore “virtuale” poi proseguì anche sull’add-on 32X con Virtua Racing Deluxe e sul Saturn, cavallo di battaglia della quinta generazione.