Con questo breve articolo, concludo il discorso iniziato la scorsa settimana su Mpixel e sensori digitali. In questo articolo si era fatto cenno al problema della diffrazione che limita il potere risolvente del sistema lente-sensore a partire da un determinato valore di apertura. Questo valore dipende dalla dimensione e dalla spaziatura dei singoli fotositi: più sono piccoli e ravvicinati, maggiore è il valore di apertura del diaframma al quale iniziano a manifestarsi gli effetti della diffrazione.
Anche a bassi ISO e per ampie aperture, dunque, rifrazione, distorsioni e aberrazioni limitano il potere risolvente del sistema; al diminuire dell’apertura, a seconda dell’affollamento del sensore, inizia a manifestarsi la diffrazione. Quindi, il massimo del potere risolvente si ha in un range ristretto di valori di aperture (tipicamente tra f/4 e f/8), dipendenti dalla qualità della lente e dalle geometrie del sensore.
Esistono, però, altri elementi e fenomeni che limitano la risolvenza complessiva sia a bassi che ad alti ISO.
Il primo è il filtro antialiasing fisico che viene applicato sul sensore; si tratta di una lente che serve ad eliminare un particolare tipo di aliasing, il moire che si origina quando si tenta di campionare un oggetto assimilabile ad un reticolo simmetrico (ad esempio la trama di un tessuto) tramite un dispositivo che presenta, a sua volta, un reticolo simmetrico con frequenza e/o inclinazione differente dall’oggetto campionato (in questo caso, il sensore della fotocamera); il disturbo si presenta su qualsiasi tipo di sensore digitale ma risulta molto più evidente nei sensori a matrice bayer a causa della necessità di interpolare quattro subpixel (RGBG) disposti sullo stesso piano per ricostruire un singolo pixel.
L’effetto dell’antimoire è quello di un filtro passabasso applicato all’intera immagine, che fa un’operazione di blurring il cui impatto sulla risolvenza è visibile, nel caso di una Nikon D200, a questo link.
Un altro fenomeno va, genericamente, sotto il nome di “rumore digitale” e si manifesta in forma più marcata all’aumentare degli ISO. In realtà si dovrebbe parlare di “rumori”, poiché i tipi di rumore digitale sono diversi come diversi i metodi utilizzati per tentare di ridurne gli effetti.
Se, ad esempio, è facile intervenire sul fixed pattern noise (si tratta di un rumore di tipo additivo, originato dalla dark current di un frame non illuminato, eliminabile sottraendo all’immagine da “pulire” un dark frame), diventa molto più complesso combattere le tipologie di rumore che rientrano nella categoria nota come pixel non uniformity noise, originati dalla non uniforme risposta dei pixel alla radiazione incidente.
Per migliorare il SNR di tipo quantico, ad esempio, si fa ricorso a microlenti applicate sulla superficie del sensore, che hanno il compito di focalizzare la luce sulla parte fotosensibile. Più sono ridotte le dimensioni dei singoli pixel e le loro reciproche distanze, più tali microlenti assumono importanza. Su reflex di ultima generazione si sono adottate lenti gapless, ovvero senza separazione tra l’una e l’altra. Un elevato valore del SNR di tipo quantico è importante anche ai fini dell’ottenimento di una più ampia gamma dinamica.
Purtroppo, però, il rumore quantico non è l’unico tipo di rumore con distribuzione di tipo random e le microlenti non sono sufficienti ad eliminarne completamente gli effetti che, anzi, all’aumentare dell’affollamento dei sensori, peggiorano nonostante le misure adottate. Il rimedio più comune nei confronti del rumore è, dunque un filtro che fa una sorta di sovracampionamento dell’immagine, interpolando i valori di pixel contigui, fino a ricavare un unico valore di luminanza e crominanza, in maniera analoga a come agisce un filtro antialiasing di tipo supersampling applicato a tutta l’immagine.
Il risultato varia da produttore a produttore e da modello a modello, a seconda dell’aggressività del filtro utilizzato.
Gli algoritmi più sofisticati (serie 1Ds Mark di Canon o D3x di Nikon) tendono a “spalmare” il croma noise, che si presenta in forma di bande di colore, in maniera uniforma tra tutte le frequenza, rendendolo meno visibile e, quindi meno fastidioso (l’occhio è più sensibile al rumore in bassa frequenza che si presenta a grana più grossa). In tal modo si riesce a minimizzare l’effetto del rumore mantenendo un buon livello di dettaglio.
Nella stragrande maggioranza delle fotocamere, invece, si tende a intervenire in maniera pesante sull’immagine, riducendone, di conseguenza, anche il dettaglio.
All’aumentare degli ISO, gli effetti dell’amplificazione del segnale (e del rumore) e del maggior calore generato dai circuiti, fanno aumentare la cifra di rumore presente nell’immagine e richiedono interventi sempre più marcati da parte dei filtri. Alcuni produttori scelgono una risposta non lineare del filtro di NR (in tal caso si nota un andamento del rumore che cresce continuamente fino ad un certo valore di ISO, per poi abbassarsi a valori di ISO più elevati e ricominciare a crescere quando si sale ancora con la sensibilità; un esempio è la Nikon D80). Questo per preservare i dettagli ad ISO medio-bassi e limitare il rumore ad alti ISO, sacrificando il dettaglio. Altri preferiscono far uso di filtri meno aggressivi e cercano un compromesso tra pulizia e risolvenza. Ad esempio, la Pentax K20D ha un filtro antimoire ed un filtro di NR meno incisivi; il risultato è che la fotocamera ha una risoluzione di estinzione inferiore ad altre macchine della stessa fascia, perché presenta prima delle altre l’effetto moire e ha più rumore ad alti ISO: però conserva anche un maggior dettaglio rispetto ad altre reflex che hanno sensori ugualmente affollati ma filtri più aggressivi.
Prendendo a modello delle reflex che hanno la stessa tecnologia del sensore (cmos), chiudiamo con una dimostrazione interattiva di come il rumore, anzi il filtro di NR, incida sulla qualità dell’immagine.
A questo link vi invito a confrontare i risultati degli still life a 3200 ISO dei seguenti modelli:
EOS 40D (10 Mpixel), EOS 50D (15 Mpixel), Pentax K20D (14 Mpixel), Nikon D300 (12 Mpixel), Nikon D3 (12 Mpixel). Le prime tutte APS-C, l’ultima FF.
Dai confronti fatti, emerge chiaramente il fatto che, con le tecnologie attuali (cmos di tipo front-illuminated), l’unico modo per preservare i dettagli, ovvero trovare un compromesso accettabile tra rumore e potere risolvente e non ridurre le dimensioni dei pixel al di sotto di determinati valori ed è evidente che i 6,2 micron della 40D danno risultati, ad alti ISO, di gran lunga migliori dei 5 micron della 50D, a livello di nitidezza dell’immagine.
Se le considerazioni sugli effetti della diffrazione hanno portato a concludere che, fissando come limite accettabile un’apertura di f/8, la misura lineare ideale del singolo pixel si attesta sui 5,4 micron, per sensori in formato DX, quanto visto sul comportamento ad alti ISO porta a concludere che un buon compromesso tra risoluzione e contenimento del rumore ad alti ISO possa essere rappresentato da pixel con misure comprese tra i 5,65 micron della D300 e i 6,2 micron della 40D.
A titolo di confronto, 12 Mpixel su formato 1/1.7″ equivalgono a una dimensione del singolo fotosito pari a 1,9 micron e 7 Mpixel su formato 1/2.5″ a pixel di 1,88 micron di lato.